lunedì 14 dicembre 2009

Vita da topi

Ma il muro fra Egitto e Striscia di Gaza si farà oppure no? Israele ne annuncia la costruzione da parte del Cairo, le reazioni nel mondo arabo sono indignate, l'Egitto smentisce l'intenzione di erigere una barriera nel Sinai. Una barriera finalizzata a mettere fine al contrabbando di armi attraverso le migliaia di tunnel che rendono il terreno fra Rafah e Gaza simil-Gruviera.

Ma ciò che passa nei tunnel è per l'80% indispensabile alla sopravvivenza: medicine, generi alimentari, vestiti. Beni il cui ingresso a Gaza non è regolare attraverso i valichi di confine con Israele.

"Noi qui viviamo come topi", diceva alla fine del mese di gennaio di quest'anno un costruttore di gallerie di Rafah, gazawi, mostrandomi l'ingresso di una sua 'opera'. "E la gente lassù non può immaginare".

martedì 17 novembre 2009

Il cantore di Palestina

"Quando ero bambino, dopo la Naqba, non c'erano libri. Ne avevamo uno ogni cinque, a scuola. Il mio sogno era averne uno tutto per me. Forse per questo ho iniziato a scrivere".

Amore

Nell'estremo meridione
Un uomo e una donna
E all'orizzonte si estende sguainata
Una selva di occhi di fucili
E discorsi incompiuti sul suolo della patria
Su strade che li rubano quando il mare si diffonde nella memoria
Un uomo spara adesso i giorni
Accarezza il suo mitra
Una donna cerca adesso un mazzo di legna
E una rosa che i proiettili hanno lasciato tra la cenere
Sale adesso
Fino a toccare il silenzio dello spazio
Troneggiante negli occhi di lui
E gli affida il suo segreto
E quando maturano i fiori del caffè
- Avremo un fiore
Avremo - ahi - un bel cucciolo
Guarda verso il confine
- Avremo una terra.
Un uomo e una donna
Ridono
E l'erba apre un sentiero al loro passaggio
E quando il sole splende
A loro per primi si inchina.

Ibrahim Nasrallah legge i suoi versi, i versi di una vita, e incanta l'uditorio: ci sono membri della comunità palestinese di Milano, spettatori non arabi appassionati della sua vasta produzione letteraria o semplici curiosi.

'Versi', a cura di Wasim Dahmash per Edizioni Q

mercoledì 11 novembre 2009

Lilith è tornata!

Lilith è tornata, più forte e libera che mai, consapevole di quanto ci sia ancora bisogno di lei. Affascinante figura di origine mesopotamica, secondo un mito sumero Lilith fu la prima donna di Adamo, a cui lei non voleva essere sottomessa. Disobbediente, lo abbandonò nel paradiso terrestre e se ne andò. Dio allora creò Eva dalla costola di Adamo, perché non seguisse le sue orme. Per questo Lilith divenne nell'immaginario ebraico un demone, emblema di adulterio e lussuria.

Ed è a questa immagine femminile, antecedente al peccato originale, che Joumana Haddad dedica la sua raccolta integrale di poesie, 'Il ritorno di Lilith'
Perché le donne, arabe e non, devono ancora guadagnare a pieno la propria libertà.
Parola della poliedrica autrice libanese, abituata a infrangere tabù.

Sicura e affascinante, Joumana utilizza la scrittura - "Scrivo perché non ne posso fare a meno" - per conquistare alla parola nuovi mondi: ne è un esempio il suo trimestrale, 'Al Jasad' (Il Corpo), dedicato al corpo in tutte le sue manifestazioni: letteratura, arte, poesia. Coraggioso esperimento giornalistico che ha da poco compiuto un anno..e promette spumeggianti sviluppi.

Dice Joumana, nel suo italiano danzante: "La donna è complice nel complotto verso il proprio sesso". Solo Lilith sa essere fino in fondo alleata di se stessa e complice del proprio uomo. Peccato che Adamo non l'abbia capito.

http://www.donnamoderna.com/sesso/Eros-psiche/foto/intervista-a-joumana-haddad-la-scrittrice-araba-che-infrange-i-tabu-197081.html#titolo

venerdì 30 ottobre 2009

La guerra nascosta in Medio Oriente

Da Avvenire, pag. 3 'in Vetrina', 17 Ottobre 2009, La guerra nascosta del Medio Oriente, Federica Zoja

Un nuovo ed esplosivo focolaio di tensione cova in Medio Oriente, sotto le sabbie della penisola arabica. In Yemen, storicamente teatro di conflitti tribali, politici e settari, gli scontri fra l’esercito regolare di Sana’a e i combattenti sciiti Huti, nelle aree di Sa’ada e Amran, sono riesplosi più violenti che mai l’undici agosto scorso, dopo neanche un anno di calma relative, e non accennano a diradarsi.

Con il rischio che la giovane Repubblica Unita (1990), ‘incastonata’ in un’area dai difficili equilibri, diventi suo malgrado il ring per un nuovo regolamento di conti internazionali. In primo luogo, quelli fra Arabia Saudita e Iran. Si intravede l’ombra di Teheran, infatti, dietro alle rivendicazioni Huti.

Su diversi fronti, la posizione geopolitica dello Yemen è più che mai delicata: il poroso confine Nord Orientale è infiltrato da membri dell’organizzazione terroristica Al Qae’da, oltre ad essere scosso dalla ribellione Huti; mentre a Ovest e a Sud, solo il Golfo di Aden separa il paese dai teatri di guerra del Corno d’Africa, da quello somalo e Sudanese; infine, in una prospettiva più ampia, la Repubblica yemenita riflette in piccolo l’acuirsi delle tensioni interne al mondo musulmano, fra l’Islàm sunnita, maggioritario, e quello sciita.

Ora Sana’a – indebolita dalla forte crisi economica, dalle onnipresenti tensioni interne con il Sud secessionista e da ripetuti attentati suicidi e sequestri a danni di stranieri – punta a ‘bonificare’ il Nord prima che la regione sfugga ad ogni controllo. E prima che la comunità internazionale punti i riflettori su quanto sta accadendo fra le montagne della penisola arabica.

Alle prese con l’insurrezione Huti dal 2004, il governo non sembra disponibile ad accogliere le rivendicazioni dei ribelli, né tanto meno ad aprire corridoi umanitari regolari per convogliare gli aiuti Onu alle migliaia di sfollati: in modo sporadico, Croce Rossa Internazionale e Medici senza frontiere raggiungono i feriti con derrate alimentari e medicine. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati ha allestito alcuni campi, fra cui quello di Al Mazraq, ma non ha accesso alle zone più interne. Né vi hanno accesso i mezzi di comunicazione: la Guerra in corso non ha copertura diretta.

Il quadro che si ricava dai media arabi, yemeniti e non (Al Jazeera, Al Arabiya, Saba News Agency, Yemen Observer, con fonti militari o testimonianze di sfollati) è quello di una escalation di violenza, con centinaia di vittime non solo fra gli insorti, ma anche fra la popolazione civile locale, soprattutto a causa degli ultimi raid dell’aviazione. E sono decine di migliaia gli sfollati (in poco più di un mese, oltre 100.000 persone secondo l’organizzazione umanitaria Oxfam, ndr), alcuni ammassati nei campi nei governatorati adiacenti Sa’ada (Al Amran, Al Jawf, Al Hajjah), altri ancora intrappolati dietro il fronte dei combattimenti.

(…) Fra attentati suicidi a istituzioni e strutture pubbliche, rapimenti di stranieri (una famiglia tedesca e un cittadino inglese sono ancor sotto sequestro, ndr) e agguati sulle strade interne, è il quadro generale della sicurezza in Yemen ad essere precipitato dall’inizio del 2009. Come se il paese fosse diventato un laboratorio, una serra in cui maturano interessi, contraddizioni e incomprensioni propri dell’intera area. Tutto questo malgrado “per molti versi, il più aperto sistema politico della penisola Arabica, impegnato nello sviluppare gli strumenti di uno Stato moderno e a cooperare con gli sforzi internazionali per sradicare la rete di Al Qae’da” (International Crisis Group, rapporto del maggio 2009).

giovedì 2 luglio 2009

Stranieri untori

Il Cairo. “Sono salita sul microbus – racconta la mia amica T. abbozzando un sorriso incerto – e subito alcune donne si sono coperte il viso con un fazzoletto”.
Niente di strano, succede spesso. In metropolitana, al suq (mercato) di A’taba, nei corridoi della Mugamma’ (il palazzone in stile sovietico che domina la centrale piazza Tahrir, al Cairo, e ospita la pubblica amministrazione egiziana). In questi giorni è capitato a molti di noi, americani e non, di sentirsi osservati con apprensione, a maggior ragione se raffreddati. Tutta colpa dell’influenza suina, o meglio dell’influenza A, da essa derivata.

Nell’immaginario collettivo, infatti, sono gli stranieri a portare in Egitto la malattia. E anche una volta verificatisi casi di infezione fra gli ‘autoctoni’, gli untori rimangono gli 'aganib', gli stranieri appunto. Mangiatori di carne suina e viaggiatori indefessi, intenti a seminare nel mondo morbi altrimenti sconosciuti ai popoli timorati di Dio.

Ma c’è anche chi, nelle file dell’opposizione politica, coglie al balzo la notizia della presenza dell’influenza suina in Egitto per denunciare l’operato del Governo, evidenziandone l’inefficacia. Come dargli torto, vista la totale inutilità della mattanza di tutti i maiali allevati nel paese, circa 250.000 capi, unica risorsa economica della casta degli 'zebelin'. La strage, avvenuta ben prima che nel paese giungesse il virus, non è servita a niente, se non a penalizzare un gruppo sociale già emarginato.

Atti alla raccolta e al riciclaggio delle immondizie (zebela, in arabo egiziano), gli zebelin vivono a ridosso delle discariche, se non al loro interno, e arrotondano i propri magri guadagni grazie all’allevamento dei suini. Diseredati e relegati ai confini dei centri urbani, sono cittadini egiziani di fede cristiana copta.

Sostenuta dai media attraverso un’intensa campagna a sfondo religioso – con foto di maiali razzolanti nel pattume, a dimostrazione che i suini sono animali impuri, come indicato dal libro sacro all’Islam – la misura preventiva ha penalizzato cittadini già di per sé discriminati dalla società nel suo complesso, a causa della loro professione di spazzini, e dalla maggioranza musulmana in particolare per la loro ‘convivenza’ con i maiali.

Dagli organismi responsabili della pianificazione urbana giungono impegni precisi per la collocazione di allevamenti di maiali a norma lontano dalle discariche e la messa a punto di sistemi di raccolta organizzata dei detriti. Per gli zebelin potrebbe essere l’occasione di integrarsi nella società attraverso impieghi differenti da quello ‘ereditato’. Oppure il via libera all’estrema emarginazione.

mercoledì 25 marzo 2009

Tranelli separatisti

"E quello che ci fa qui?". La commessa del negozio di lingerie - Wust el Balad, pieno centro del Cairo, due vetrine gigantesche popolate di manichini scostumati - segue con lo sguardo una coppia di clienti, appena emersi dalla scala a chiocciola che conduce dal piano inferiore, quello sulla strada, al paradiso dell'intimo, e non nasconde il proprio fastidio per la presenza di un UOMO.

Un uomo, cioè - mi permetto di interpretare la mimica facciale della capo-commessa e delle sue sottoposte - un coso barbuto, di circa 25 anni, pallido in viso e alquanto imbarazzato, che segue docilmente la moglie alla scoperta di pizzi e merletti.

E per un attimo anche io provo ostilità per questo essere che si permette di violare un luogo a me riservato, uno dei pochi posti in cui, velate o no siamo tutte uguali, temporaneamente affaccendate con gancetti e bretelline, imbottiture e cuciture che non si devono vedere.

Quindi, faccio mia la domanda amletica: "Ma non lo vedi che sei nel posto sbagliato?". Poi, però, il mio paracadute interno, quello che si attiva quando sto per spiacciccarmi al suolo trascinata dal peso del bipolarismo uomo-donna, si apre. E resto sospesa a mezz'aria.

C'ero quasi cascata, nel tranello. E adesso avrei voglia di abbracciarlo, il Mister in questione. Lui che guarda complice la moglie mentre si prova - sopra almeno due strati di vestiti - una vestaglia rosso fuoco, lunga fino ai piedi, bordata di finto struzzo tinta passione ardente. Bravo aleik. Che sfidi le striscianti logiche separatiste, non scritte ma devastanti, che stanno spaccando l'Egitto.

Ma io qui ci posso stare? Ma lui qui ci può entrare? Ma noi due, qui, insieme, come ci dobbiamo comportare? Ebbbbbbbbbasta. Mister Mohammed o Mustafa o Ahmed, non lo so, e la sua consorte sono i miei eroi del giorno. Quasi eroi, insomma...Lo string in stile Swarovski, catarifrangente sotto le luci al neon, è davvero un colpo basso. Ma ormai, io e il mio paracadute siamo atterrati leggeri come piume.

E io sgambetto fuori dalla casa dell'intimo orrido sana e salva.

mercoledì 18 marzo 2009

Non posso coprirmi di più

Oggi ci guardano tutti. E quando dico tutti intendo tutti. Il bambino di dieci anni che gioca a pallone per strada, il vecchio sdentato che fuma una shisha, i camerieri, i passanti, gli studenti, l'autista dell'autobus fermo al semaforo, i poliziotti, il commesso della panetteria che chiacchiera con un cliente, il giornalaio...
Io controllo velocemente l'abbigliamento della mia amica e lei fa lo stesso con me. Non capiamo. Fa caldissimo, ma siamo pure più coperte del solito. Giacca, pantalone largo, persino sciarpa intorno al collo. Scarpa bassa, andatura di chi vuole scomparire dalla faccia della Terra.

Conosco questa zona, è la mia. Ci passo ogni giorno, non rappresento una novità per negozianti e avventori. Eppure oggi sussurri, commenti, bisbigli, risate si sprecano. Io e la mia amica parliamo arabo (ahimé), capiamo quello che ci viene detto. Ci guardiamo smarrite. Incrociamo altre ragazze, la testa velata ma i corpi fasciati da jeans e magliette ridotte al minimo. Tacchi alti e anche ondeggianti. Ma la curiosità morbosa è tutta per noi: immagino che per qualsiasi femmina egiziana una donna straniera sia un parafulmine inviato dal cielo...

Considerazioni di chi vive in Egitto da tre anni e mezzo e assiste con dolore al cambiamento dei costumi. Forse siamo fra le ultime donne a poter girare liberamente, senza hijab, in questo paese. Forse è vero che la discesa verso l'oscurantismo è in caduta libera. E soprattutto, chi non vive davvero l'Egitto del 2009 - spostandosi con i mezzi pubblici, andando alle poste o al supermercato - non può capire.

A lezione di Pensiero politico ci dicono che sono già operative 18 scuole - che comprendono tutti i cicli scolastici, tranne l'università - private confessionali che impartiscono agli alunni insegnamenti di ispirazione wahabita. Costo annuale: oltre i 10.000 euro. Il che vuol dire che si rivolgono a una 'nokhba' (élite) davvero esclusiva. Quei bambini sono i futuri leader di questo paese?

Fatto sta che non posso coprirmi più di così. Ma tanto anche le donne monaqabbat (con il velo integrale, il niqab) vengono importunate in continuazione. Scomparire, chiudersi in casa, annientarsi pur di non suscitare i pensieri sconvenienti dei concittadini maschi?

E come è possibile che nella Gaza di Hamas o nel Libano di Hizbollah l'aria sia più leggera per una donna? com'è possibile che di rientro in Egitto da un qualsiasi altro paese arabo musulmano il trauma di ritrovarsi 'carne da macello' sia sempre più forte?

Io un giorno me ne andrò, il mio bel passaporto europeo in una mano. Mentre per le mie amiche egiziane il futuro appare minaccioso...
Sono triste, oggi mi sento amareggiata. Come vorrei essere testimone di un Egitto diverso, quello di trent'anni fa...

mercoledì 25 febbraio 2009

Il terrore che ferma il tempo

Ore 18.30, domenica 22 febbraio, Il Cairo. Entriamo nella moschea universitaria di Al Azhar da un'entrata laterale, al termine della preghiera non tutti i fedeli sono usciti e noi non vogliamo disturbare. Qualcuno sta ancora meditando o si trattiene con altri compagni. Senza scarpe e in rispettoso silenzio, io con la testa velata, ci aggiriamo per i vasti locali interni. Poi una pausa sotto il porticato, una sosta di fronte a un portone giusto il tempo di leggere il cartello affisso - "Sala della preghiera per le donne" - e un boato improvviso squarcia l'aria.

In pochi secondi, gli sguardi dei presenti si rincorrono frenetici e dubbiosi. C'è chi parla di incidente automobilistico, di una bombola del gas, di un incendio. Ma i guardiani di Al Azhar si accingono a chiuderci dentro per motivi di sicurezza e urlano confusamente. Non so che cosa mi prende, ma è più forte di me. Non voglio rimanere in trappola, devo uscire, devo sapere, stringo le scarpe che ho in mano e schizzo fuori in strada scalza. Non mi giro neanche. So che il mio compagno di viaggio mi seguirà.

Imboccare il sottopassaggio e farsi largo fra la folla in controsenso è un attimo. Pochi minuti dopo la deflagrazione siamo di fronte a una scena tanto reale quanto cruda. C'è gente che piange, polizia dappertutto, ambulanze in arrivo, vigili del fuoco. I negozianti stanno chiudendo, disperati. E la parola fino ad allora innominata esce allo scoperto. Combòla. Bomba. Punto e basta, nient'altro da dire. L'illusione che quella che sento come la mia città sia indenne dall'incubo terrorismo - come se quattro anni, quelli passati dall'ultimo episodio, fossero un'eternità - si infrange come un vetro. Mi sento una stupida.

Non mi resta che fare il mio mestiere, telefonare e dare vita alla giostra. E poi parlare con la gente, ascoltare le storie, farmi intervistare dalla radio francese - i media francesi sono i più coinvolti, l'unica vittima è una giovane studentessa in gita scolastica -. Parlo e scrivo, racconto e mi carico. Solo 24 ore dopo, passata l'ubriacatura, mi rendo conto che sono viva. E che per pochi minuti, per un caso, per un naturale disinteresse verso i luoghi pù turistici, io e il mio compagno di avventura ci siamo.

Mi scrive una collega più grande ed esperta: "Chissà perchè, noi che viaggiamo in questi posti, diamo come per scontato di beneficiare, con i nostri colleghi, di una sorta di immunità. Fino a quando non scopriamo che così non è".

giovedì 19 febbraio 2009

Mi accendo come una tv

"Ma dove stai andando, c'è ancora un sacco di lavoro!?". "Uffa, mi fumo una sigaretta, posso?". Dialogo surreale da me intercettato sulla soglia del makwagy sotto casa (la mia stireria-tintoria di fiducia), un bugigattolo di pochi metri quadri dentro al quale stirano come ossessi due omini consunti dal caldo.
Mentre la 'coordinatrice' dell'équipe è la moglie di uno dei due, donnina dall'intelletto fino che passa il tempo a tenere la contabilità, a curare le pubbliche relazioni con i negozianti vicini (un khudari, fruttivendolo, e un baqal, un droghiere-pizzicagnolo, insomma) e a discettare di politica mediorientale con i clienti...

Con lei assolvo alla mia funzione informativa nel più alto senso del termine. La signora mi sfila dalle mani pantaloni e stracci vari - che passa al marito-servo - e mi 'accende' come una televisione. E io mi sintonizzo sulla funzione 'lingua araba' e la nutro di aggiornamenti. Poi passiamo alla fase talk-show, ma i due schiavi stiranti non hanno diritto di parola. A volte si aggiunge qualche altro cliente di passaggio o un vicino o il bauab (il portinaio) del palazzo (ecco perché non lo trovo mai...). E via di botta-risposta, opinioni, commenti, rifessioni mai banali su questo nostro angolo di mondo e su come gli europei ci vedono (ops, li vedono) e su come la sottoscritta dovrebbe raccontare, spiegare, chiarire...

Dietro di noi la foto della Mecca, colma di pellegrini. "Vorrei vederla, ma non mi sarà mai possibile", mi lamento. E il silenzio scende sugli sbuffi dei ferri da stiro.
"Hai ragione, non è giusto", mi risponde la mia fedele telespettatrice. "Quando intervisti un pezzo grosso, uno Sheikh, chiedigli perché e poi fammi sapere".

Potere della parola, che apre gli occhi e ferma il tempo. Che sfata i luoghi comuni e regala momenti imprevisti di armonia vera.

sabato 14 febbraio 2009

Padre Manuel Musallam: "Io sotto le bombe tra i cristiani di Gaza"

Gaza City (Intervista pubblicata da ResetDoc.org)

Non parla volentieri con i giornalisti padre Manuel Musallam, prete cristiano cattolico punto di riferimento di una comunità di 3.700 fedeli, di cui 3.500 di fede ortodossa. Il tono della risposta, al primo approccio telefonico, è quello di chi non ha tempo da perdere in chiacchiere, soprattutto in un momento di emergenza come quello vissuto dagli abitanti della Striscia di Gaza. Ma poi la tentazione di spiegare, di raccontare ancora una volta la propria versione dei fatti, di dare voce alla gente prima che cali del tutto il sipario su Gaza è più forte. Reset lo ha incontrato nel suo ufficio, nel cuore di Gaza City.

R: Abuna (come lo chiamano i fedeli), come vivono i palestinesi di fede cristiana nella Striscia di Gaza?

M: I cristiani a Gaza non sono una comunità religiosa confinata in un angolo. La loro situazione è simile a quella degli altri palestinesi. Noi facciamo parte del popolo palestinese, non siamo un gruppo etnico diverso. Siamo arabi. Io sono arabo come il profeta Maometto, sono arabo come il premier di Hamas, Ismail Haniyeh. Condividiamo la stessa identità, la stessa terra, lo stesso destino. I cristiani in questo paese vivono come i musulmani, soffrono con loro, lottano con loro. I cristiani non hanno armi nelle loro mani perché adesso ci pensa Hamas. Ma noi lottiamo, io lotto con la mia voce e i miei pensieri più di un soldato in battaglia. Io non dico che tutto il mondo si deve mobilitare per un cristiano che muore a Gaza. Si, qui abbiamo avuto due morti. Una ragazza cristiana è morta di paura. Ma sono due morti che si aggiungono alle 1.300 persone che sono state uccise. Se uno o due cristiani sono stati feriti, si aggiungono ai 6.000 feriti che ci sono stati. Se case di cristiani sono state danneggiate, quelle case si aggiungono alle migliaia di case danneggiate. Insomma: i cristiani sono palestinesi. Noi rifiutiamo di nasconderci dietro gli altri in ultima fila. Non invochiamo guerre, non invochiamo morte, non invochiamo uccisioni. Ma se siamo attaccati, abbiamo il diritto di difendere noi stessi e la nostra gente.

R: Che cosa pensa del modo di difendersi di Hamas, con le armi?
M: Io penso che l’Europa e l’America non capiscano la situazione a Gaza. Hamas è fatta da palestinesi. Nella mia scuola ci sono insegnanti di Hamas, madri di Hamas, studenti di Hamas, il panettiere è di Hamas… Quelli di Hamas non sono tutti guerriglieri. Non sono arrivati da fuori a Gaza, non ci hanno invasi, schiavizzati, sottomessi come in Somalia o in altri posti. Tutti mi fanno sempre questa domanda: perché Hamas colpisce i civili? Mi dicono che gli israeliani che vivono a Sderot e ad Asqelon sono civili, sono persone innocenti, che non meritano che gli si lanci addosso dei razzi. Mi dicono che è un crimine colpirli. Ebbene, volete una risposta da me, da Hamas o dalla mia gente? Certo, in una situazione normale lanciare razzi contro dei civili sarebbe un crimine. Ma prima di rispondere abbiamo una domanda per il mondo. Diteci per favore: tenere sotto occupazione un altro popolo, assediare un altro popolo, maltrattare un altro popolo per 60 anni, la sofferenza dei palestinesi, la diaspora di un popolo, cosa sono? Cosa ci sta facendo Israele? E’ legale o illegale? Il vostro Dio, in Europa e in America è il Dio della lotta, della guerra.
Se voi accettate che i palestinesi siano occupati e assediati per così tanto tempo, allora io vi dico che i nostri razzi sono auto-difesa e che la nostra resistenza deve essere approvata da tutto il mondo e da Dio.

R: Padre, ci parli della comunità cristiana.
M: I cristiani a Gaza sono 3.500 e i cattolici sono solo 200, circa 70-72 famiglie. Siamo una piccola comunità ma con molto lavoro da fare. Abbiamo tre scuole, con 1.600 studenti. Anche se sono scuole cattoliche, la maggior parte degli studenti è musulmana. Io non sono venuto qui a Gaza per servire 200 persone. Sono qui per servire il mio popolo, e musulmani e cristiani sono il mio popolo. Poi c’è la Caritas che lavora qui, abbiamo la missione pontificia, abbiamo il servizio di soccorso cattolico, ci sono le Suore della Carità che hanno un piccolo asilo, una casa per i bambini handicappati e una casa di riposo per donne anziane. Abbiamo le suore del Rosario che hanno pure loro una scuola. Queste attività per noi comportano un lavoro enorme.

R: Molta gente sta lasciando il paese, qual è la situazione a Gaza?
M: I cristiani non stanno andando via dalla Palestina per colpa dei musulmani. Noi soffriamo con i musulmani, affrontiamo la morte con loro, siamo andati in esilio con loro. Noi non siamo perseguitati dai musulmani né a Gaza né in Cisgiordania. Israele ha posto sulle nostre spalle un fardello enorme, vivere è difficile. Ma ci sono palestinesi che non partiranno mai, il mare di Gaza potrebbe anche sparire, hanno le radici in questo paese, e i musulmani li proteggono, non li cacciano.

R: Lei pensa che le autorità cristiane al di fuori della Palestina capiscano la vostra situazione?
M: Non vogliamo che in Europa o altrove ci considerino collegati legalmente con l’esterno, prima di tutto siamo palestinesi, poi siamo anche cristiani in questa terra. Niente ci lega all’Europa. Se dei cristiani vengono qui a portarci il loro aiuto, la loro carità, noi li incoraggiamo. Ma non siamo legati a questo movimento di stranieri che vengono qui. Io sono legato al mio popolo, se la presenza di cristiani europei fa del bene alla mia gente allora l’accetto, altrimenti la combatto.
Il Vaticano sta facendo un lavoro molto interessante qui in Palestina, religioso e non politico: soldi per costruire scuole o chiese o il Catholic relief service e il lavoro della Nunziatura pontificia creata per il popolo palestinese.
Ma altra gente che viene qui, missionari protestanti con un sacco di soldi lo fanno per il desiderio di creare problemi fra musulmani e cristiani. Per dominare il mondo arabo intero. Per far diventare Gerusalemme una città ebrea. E per me questi sono nostri nemici.

Poi la realtà ha la meglio sui discorsi, il telefono squilla e padre Musallam è riassorbito dalle responsabilità: ora c’è da organizzare il sostegno psicologico per i bambini traumatizzati dalla guerra.

venerdì 30 gennaio 2009

Radio Saut El Shaab al servizio della comunità gazawi

(Intervista del 27 gennaio, Gaza City) “All’inizio non capivamo che cosa stesse succedendo, dalle finestre della redazione vedevamo in tutte le direzioni aerei, fuoco, esplosioni”, racconta Bassem Abu Oun, direttore di Radio Voce del Popolo (Radio Saut El Shaab), emittente di riferimento del Fronte popolare di liberazione della Palestina, “ma indipendente, con un palinsesto che si rivolge a tutti gli abitanti della Striscia”, precisa Abu Oun. Radio Voce del Popolo rappresenta l’unica alternativa alle radio di Hamas (Al Aqsa) e Jihad (Al Quds).

Colti di sorpresa dall’intensità dell’operazione israeliana Piombo Fuso, i redattori di Radio Saut El Shaab hanno messo a punto un piano per coprire tutto il territorio, “con giornalisti presenti nella sede centrale 24 ore su 24, a turni, e altri in giro per la Striscia - racconta il direttore – Non è stato facile, alcuni dei miei ragazzi dormivano in redazione”.

In realtà, Radio Voce del Popolo non nasce con una vocazione ‘all news’, ma come un’emittente al servizio della comunità, “con un palinsesto vario, fatto di sport, cultura, sociale, e programmi mirati per donne e giovani, cosa che le altre radio non hanno mai fatto”. Questo era il progetto iniziale, ormai due anni e mezzo fa, e così è stato fino all’inizio dell’offensiva israeliana. “In tempi di guerra – commenta Oun – quando non ci sono altri punti di riferimento, una radio può e deve diventare il solo punto di riferimento per i civili e per i combattenti”.

Tutto intorno alla sede dell’emittente, gli aerei militari F16 colpivano altri palazzi sede di organi di stampa (secondo il rapporto del 22 gennaio pubblicato dal Centro palestinese per i diritti umani, Pchr, 5 distrutti e 2 danneggiati gravemente): “A volte abbiamo pensato che i bombardamenti fossero per noi, dalle finestre sono entrate schegge pericolose quanto proiettili. Certe esplosioni sono avvenute a qualche centinaio di metri da qui”.

Durante i 22 giorni di guerra, Radio Saut El Shaab ha dato informazioni su quanto accadeva nelle diverse zone della Striscia, ha lanciato appelli per gli aiuti, ha segnalato i casi più gravi, ha contribuito a rafforzare i legami fra le diverse anime della società gazawi: “Grazie ad un generatore di corrente abbiamo rappresentato per i nostri ascoltatori una voce amica e affidabile”, tuta quanta, senza distinzioni politiche.

Fino ad ora l’emittente si è finanziata attraverso introiti pubblicitari e donazioni di privati. I giornalisti sono studenti di comunicazione negli atenei della Striscia o giovani appena laureati, pagati circa 200 dollari al mese: “Hanno rischiato la loro vita girando in lungo e in largo, e tre sono stati feriti, per fortuna non gravemente”, racconta Bassem Abu Oun.

Ora lentamente si ritorna alla programmazione del tempo di pace, ma con un’attenzione speciale alla ricostruzione, sempre nel segno della solidarietà per le famiglie rimaste senza casa, per i feriti: “Siamo una radio di ispirazione democratica, non religiosa, e per questo ci interessiamo a tutta la comunità in modo continuato”, insiste il direttore, quantificando l’audience della ‘sua’ radio nell’ordine di 100.000 ascoltatori, “circa il 40% dell’audience complessiva fra Striscia di Gaza e Cisgiordania”. Ma in tempo di guerra “sono raddoppiati”, assicura. E nell’arco di due mesi la qualità delle trasmissioni saranno migliorate, grazie ad un investimento in tecnologia di circa 50.000 dollari.

Un investimento per il futuro che stride con il pessimismo esibito da Bassem Abu Oun quando è chiamato a fare previsioni sulla pacificazione nella Striscia: “Quello che hanno fatto gli israeliani – dice – è un massacro pianificato, non vedo nessuna luce in fondo al tunnel”, e conclude “Sei mesi dopo le elezioni, mi aspetto un’altra strage come questa”.

mercoledì 28 gennaio 2009

Rotta la tregua a Gaza

Gaza City. Attoniti e increduli gli abitanti della Striscia di Gaza accolgono la notizia della rottura della tregua con Israele da parte di guerriglieri armati, nella mattina del 27 gennaio, nei pressi del valico di Kissufim – aggressione rivendicata alcune ore dopo dai Comitati di resistenza popolare – e dell’immediata risposta dell’esercito di Tel Aviv. Negli scontri rimangono uccisi un soldato israeliano, un agricoltore gazawi e un giovane a bordo di una bicicletta, probabilmente membro dei Comitati. Tre soldati israeliani rimangono feriti.
Per tutta la giornata ci si chiede se l’episodio darà il via a una nuova escalation di violenza.

Ecco alcuni commenti raccolti nel pomeriggio di martedì:
“Non credo che la guerra riprenderà, non prima delle elezioni israeliane – sostiene Bassam Abu Oun, direttore di Radio Voce del popolo, emittente vicina al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Intorno a lui i giornalisti in redazione si dicono pronti a lavorare 24 ore su 24, come durante i 22 giorni dell’operazione piombo fuso su Gaza, se fosse di nuovo necessario.

Nei negozi e negli uffici pubblici, riaperti da pochi giorni, le opinioni sono discordanti, ma la tensione rimane alta. “Questa guerra ha sorpreso tutti - commenta un giornalista gazawi dicendosi pronto per la prima volta in vita sua a lasciare la Striscia di Gaza insieme ai propri cari - E’ stata sorprendente e imprevista per intensità, durata, strategie militari”.

Ci si sforza di immaginare le prossime mosse di Tel Aviv, per poi decidere se chiudersi in casa o azzardarsi ad andare a trovare gli amici, per cena. “Potrebbero colpire Rafah, ma anche altre aree (la Striscia di Gaza ha una superficie di circa 40 km per 8-10, ndr). Tutto può essere - commenta un operatore umanitario di Jabalia, nel Nord, visibilmente in tensione – e la rottura della tregua offre a Israele un’ottima occasione per riaprire il fuoco”.

Per questo, il successivo attacco aereo notturno non sorprende nessuno.
E’ appena passata l’una di notte del 28 gennaio quando gli aerei F16 israeliani rompono la barriera del suono e cominciano il loro valzer. Tre raid aerei mirati sulla zona di confine fra la Striscia di Gaza e l’Egitto, a Rafah, là dove numerosi tunnel del contrabbando sono ancora in funzione, nonostante i ripetuti attacchi dell’operazione Piombo Fuso, scuotono il sonno degli abitanti, che scappano dalle proprie case, a ridosso della barriera del valico e delle ‘serre’ che nascondono l’ingresso dei tunnel.
Dopo la missione, il cielo di Gaza rimane per ore in balia degli F16 senza requie.

Per ingannare il tempo e non precipitare nella spirale dell’angoscia, c’è chi riaccende la televisione, chi ascolta musica, chi guarda fuori dalla finestra. Ma qualcuno non si accorge di niente e, al risveglio, ammette serenamente: “Ormai mi sono abituato”.

lunedì 26 gennaio 2009

Due settimane di ricerca a tutto campo

(Continua, Gaza City) Quanto alla decisione di bombardare case abitate, “perché le forze israeliane pensano o sanno che quella è la casa di un militante che magari può essere un bersaglio legittimo, in realtà le si colpisce quando ci sono anche altri dieci membri della sua famiglia, donne, bambini, civili. Questo è un uso disproporzionato della forza, che non può essere giustificato”.
Il volantinaggio sulla Striscia, al fine di avvertire gli abitanti di un imminente attacco, non rispetta il diritto internazionale, ricorda Donatella Rovera: “Gli avvertimenti devono essere specifici, mentre qui i volantini lanciati dagli aerei cadevano su aree molto vaste e i messaggi telefonici pre-registrati hanno solo contribuito a creare panico perché effettuati a caso”.

“Chiaramente non tutte le azioni delle forze israeliane condotte in queste tre settimane sono illegali, ma le autorità israeliane devono mettere a disposizione le prove perché quando si colpiscono obbiettivi che sono evidentemente civili, l’onere della prova deve essere a carico di chi colpisce”.
E cita casi come quelli delle famiglie Sammuni, Daia, Abu Aisha o Balusha: “Le loro case sono state distrutte con le persone ancora all’interno. E poi molti casi in cui sono state uccise una due persone, ma il principio è lo stesso: se sono state uccise dieci, venti o due persone questo dipende dal caso”.
Per esempio la casa del medico Auni: “Si può dedurre dal comportamento dei membri della famiglia - spiega Rovera - che non c’era combattimento intorno alla casa, il medico era nel suo studio nella casa, sua moglie era in cucina che preparava il cibo per i bambini, i bambini erano in camera da letto durante la giornata, la casa è stata bombardata e la mamma dei bambini è stata tagliata in due da proiettili e anche il bambino piccolo è stato ucciso.

Rispetto al’uso dell’uranio impoverito, dichiara: “Noi non abbiamo trovato prove, non siamo specialisti su questo quindi non è un qualcosa che noi potremmo individuare. Anche dell’uso di Dime (Dense Inert Metal Explosive) se ne parla ormai da un paio di anni, è un’arma che è ancora in stato di sviluppo, una cosa molto nuova, c’è ancora poca conoscenza, quindi stiamo cercando di ottenere più informazioni".

In termini di diritto internazionale, la responsabile Amnesty ci tiene a chiarire che "C’è l’obbligo delle forze armate di proteggere i civili, quindi il fatto che forze armate o altri combattenti siano in zone civili non autorizza ad attacchi indiscriminati". E precisa: "Entrambe le parti hanno combattuto in quartieri residenziali, e non erano presenti solo i gruppi armati, ma anche i soldati hanno occupato case civili che hanno usato come basi militari, i soldati israeliani sono entrati a Gaza proprio nelle zone residenziali. Non sono i gruppi palestinesi che sono entrati nelle città israeliane, ma il contrario. Quindi il fatto di usare case come protezione per nascondersi dietro a un muro lo hanno fatto entrambe le parti".
Inoltre, "I casi classici di scudi umani sono quelli in cui le forze israeliane entrano in una casa, imprigionano la famiglia in una stanza, al piano terra generalmente, e impediscono loro di andare via, e poi usano la casa come base militare, mettendo quindi a rischio la popolazione civile. La popolazione civile viene messa a rischio da ambedue nel loro modo di combattere in zone civili".

Amnesty International rimarrà a Gaza per completare la raccolta di informazioni e dati per altri dieci giorni. Poi, "Porteremo le nostre conclusioni alle autorità israeliane e infine pubblicheremo un rapporto". Qualsiasi azione legale è ancora prematura, "anche se noi vorremmo un meccanismo di indagine internazionale", conclude Rovera.

I primi riscontri di Amnesty a Gaza

Gaza City. A Gaza, durante i 22 giorni dell’operazione militare israeliana denominata Piombo fuso, “sono state commesse violazioni massicce del diritto internazionale, incluse violazioni che costituiscono crimini di guerra in tutti i campi, uccisioni illegali, distruzioni gratuite di proprietà e uccisioni illegali come risultato di pratiche diverse, quali l’uso di armi improprie nei quartieri residenziali”.
Così Donatella Rovera, responsabile ricerca di Amnesty International per Israele e Palestina, riferisce quanto riscontrato a Gaza nella prima settimana di ricerca sul campo della sua équipe, che si avvale della consulenza di un esperto militare.

E precisa: “Siamo arrivati quando abbiamo potuto, abbiamo chiesto fin dal primo giorno di entrare, ma le forze armate e il governo israeliani non ci hanno concesso l’accesso, così come le autorità egiziane non sono state collaborative”.
Ora l’indagine si focalizza sulle violazioni “che rappresentano uccisioni illegali, distruzione gratuita di proprietà civili, uso improprio di armi”. In proposito, Rovera spiega: “Anche se non sono puntate direttamente, ormai si sa da parecchi anni che se si usa un certo tipo di armi e munizioni, ad esempio l’artiglieria in quartieri residenziali, le probabilità di colpire l’obbiettivo prefissato sono minime, mentre è alta la probabilità di raggiungere persone e oggetti che non erano previsti”.

Al centro delle indagini anche “Il fattore accesso a servizi medici e umanitari, negato non solo in un caso o alcuni casi ma in molti casi e in zone diverse della Striscia di casa”.
Ma l’attenzione della comunità internazionale è puntata soprattutto sulla “questione del fosforo bianco, che le autorità israeliane hanno rifiutato di confermare per molto tempo, però quando poi siamo entrati e sono entrati i giornalisti è risultato evidente”.
Rovera non esita a definire quella israeliana una “ammissione tardiva, che ha fatto sì che vittime che avrebbero potuto essere curate in modo più efficace e veloce hanno invece sofferto un deterioramento delle loro condizioni”. E cita alcuni “casi orribili in cui le ferite dei pazienti fumavano per un giorno perché erano rimaste particelle di fosforo e ogni volta che erano a contatto con l’ossigeno bruciavano”.
Aggiunge il responsabile Amnesty: “E’ stato fatto uso di fosforo bianco in modo illegale e anche incomprensibile, anche dal punto di vista militare. Il fosforo bianco viene utilizzato in due casi: per illuminare oppure per proteggere i movimenti delle truppe sul terreno con una cortina di fumo. Ma a Gaza è stato utilizzato in zone in cui i soldati israeliani non erano presenti, né intorno e dentro il complesso dell’Unrwa a Gaza City, né alla scuola di Beit Lahia, né all’ospedale del Quds né intorno a tutte le case che abbiamo visto a Zeitun e negli altri quartieri”.
E soprattutto “il fosforo bianco è stato usato in piena giornata, quindi non c’era bisogno di illuminare”.
C’è poi il problema del proiettile di artiglieria che porta il fosforo bianco e che “causa morte, distruzione, ferite con le proprie schegge”.
Rovera chiarisce inoltre: “L’interpretazione delle forze israeliane, degli avvocati delle forze armate israeliane, del diritto internazionale è molto elastica. Noi abbiamo visto un uso del fosforo bianco improprio dal Nord al Sud, quindi non è un solo battaglione (come invece sostiene l’esercito israeliano, ndr)”.

(Continua)

domenica 25 gennaio 2009

Il Fplp ai negoziati del Cairo

Gaza City. “Il vero cambiamento eravamo noi, non Hamas. Credo che adesso molta gente, più a Ghaza che in Cisgiordania, se ne sia accorta”. A parlare così è Jamil Almajdalawi, leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina e membro del comitato politico del partito, il terzo movimento politico palestinese. Alle elezioni del gennaio 2006, il Fplp ha ottenuto il 5% dei voti, un risultato amaramente digerito: “Secondo me non corrisponde al reale bacino di nostri sostenitori, che dovrebbe aggirarsi intorno all’8-10%”, commenta Almajdalawi. Ma allora il desiderio della maggioranza dei palestinesi, urlato al mondo in modo inequivocabile, era voltare pagina, dimenticare la corruzione e l’inettitudine di Fatah.

Ora più che mai il Fplp svolge un ruolo di sentinella, denunciando pericoli e anomalie sia del governo di Salam Fayyad, in Cisgiordania, sia di quello di Ismail Haniyeh, a Ghaza. E rischia ripercussioni da un momento all’altro: “Se non ci sarà riconciliazione fra le fazioni politiche – spiega Almajdalawi – penso che prima o poi si esaurirà anche la tolleranza nei nostri confronti”.
Almajdalawi è in partenza per il Cairo, dove oggi si apriranno due tavoli paralleli di discussione: uno che vede protagonisti Israele e Hamas, e l’altro le diverse fazioni politiche palestinesi.
“Crediamo che questi primi negoziati rappresentino una preparazione a quelli palestinesi globali. E per noi del Fronte popolare per la Liberazione della Palestina è importante, almeno per noi”.

Una premessa: “Quello attuale è un modo sbagliato di intendere il cessate il fuoco perché quando una nazione è in una situazione di occupazione ha diritto di resistere”.
Da parte di Tel Aviv, Almajdalawi riscontra il tentativo di “dimostrare al mondo che la sua è guerra contro guerra, non guerra contro gente che sta resistendo all’occupazione. E il conflitto interno fra Hamas e Fatah non fa che aiutare e promuovere l’azione di Israele”. Il Fplp teme il protrarsi della “pressione sulla popolazione palestinese” e considera “uno scherzo la tregua su queste basi”: “Insomma la loro occupazione senza la nostra resistenza diventa occupazione a cinque stelle”.

Quanto alla seconda questione, quella della riconciliazione nazionale, il Fplp si attiene al Documento di riconciliazione nazionale, “che stabilisce di riunire i principi fondamentali della nazione, un governo nazionale unico, elezioni nuove per il Parlamento e la Presidenza per ricostruire l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr)”.
Schiacciato fra Fatah e Hamas, il terzo incomodo cercherà di facilitare la riconciliazione, quella di cui si parla sui manifesti voluti da un comitato civico nelle strade di Ghaza. “Fratelli nonostante le differenze”, recitano.
“Le condizioni imposte da Hamas puntano a ritardare la riconciliazione fra i movimenti e lo stesso vale per Abu Mazen (il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, ndr), imponendo condizioni dure a Hamas per far passare le proprie linee politiche. Sarà difficile, ma non impossibile”.

Ecco i punti condivisi con Hamas: “L’interruzione dei sotto-negoziati fra Abbas e Israele; la lotta alla corruzione dell’Autorità nazionale; la sospensione della collaborazione in fatto di sicurezza. Ma non pensiamo che uno stato retto da Hamas sia migliore. Hanno una gestione della società sbagliata. Sono una forza non democratica, che fa regredire la società, non accettano critiche”.
E conferma: “Tutto quello che si dice sulle gambizzazioni da parte di Hamas (nei confronti dei nemici politici, nella Striscia negli ultimi giorni, ndr) è vero, la violenza qui rispetto alla Cisgiordania è più forte”.

Rimane il nodo cruciale del valico di Rafah, con doppia gestione: “Otto mesi fa abbiamo proposto un piano che preveda per Mahmoud Abbas il ruolo di presidente ufficiale, mentre per Hamas quello de facto sul campo. E di utilizzare le risorse derivanti dalla frontiera di Rafah per servizi sanitari e sociali per i cittadini, non per Abbas né per Haniyeh. Comunque fino alle prossime elezioni, per noi Abu Mazen è ancora presidente”.
Altrettanto fondamentale la ricostruzione di Gaza, “possibile con la creazione di un comitato nazionale che gestisca i fondi e li convogli alle persone colpite”.

Almajdalawi sa che la liberazione del soldato Gilad Shalit sarà oggetto di contrattazione al Cairo e commenta: “Gli israeliani dicono che la liberazione è vicina, ma non è un paradosso che tutto il mondo si preoccupi di Gilad mentre ci sono 11.500 nostri prigionieri in Israele? Come essere umano, non come palestinese, questo mi offende”.

La tragedia di Sammuni

Gaza City. Hanno perso tutto, abitazioni (35), animali, terre coltivate e soprattutto 29 membri della loro famiglia (di cui 16 bambini - due piccolissimi, uno di cinque mesi e l'altro di un mese - e 13 adulti). Il clan dei Sammuni, da cui prende il nome l’omonimo villaggio nell’area di Zeitun, sobborgo a Nord della Striscia di Gaza, sul confine con Israele, riceve le condoglianze di amici e vicini, e bivacca nelle tende piantate di lato alle macerie. I bambini giocano in mezzo ai calcinacci di quelle che fino al 5 gennaio scorso (ma la notizia si è saputa solo il 9) erano le loro case e da cui spuntano materassi, vestiti, mobili e stracci, alcuni macchiati visibilmente di sangue.

A raccontare la storia del massacro di Sammuni è Yousra Sammuni, 55 anni, mentre intorno a lei, figlie e nipoti femmine tacciono sedute per terra. Gli uomini, più lontani, raccolgono le cifre esatte dei danni subiti nella speranza di ricevere le compensazioni promesse dal governo di Hamas.
Il 4 gennaio, l’esercito israeliano – entrato nel territorio di Zeitun poco più in là, spianando con le ruspe uliveti e aranceti – ha intimato agli abitanti del villaggio di abbandonare le proprie case e li ha raccolti in un’unica abitazione. Lo stesso è stato fatto in tutta Zeitun, dove i soldati di Tsahal hanno lasciato sui muri delle case occupate eloquenti scritte intimidatorie e di spregio.
Ma le 70 persone raccolte a forza in una sola casa a Sammuni sono state inspiegabilmente oggetto di bombardamento il giorno seguente, il 5 gennaio. E ai soccorsi è stato impedito di giungere in loco per ore, fino alla mattina seguente.
In tutta Zeitun le famiglie colpite dall’offensiva israeliana negli ultimi giorni della guerra sono undici e le vittime 50, di cui 47 abitanti del posto e 3 di fuori.
"In questa zona non c’è mai stata nessuna resistenza – grida Yousra – siamo agricoltori, vendiamo frutta e verdura. Amnesty International e le principali organizzazioni per la difesa dei diritti umani indagano sull'episodio.

Anche la famiglia di Subh Arafat, 25 anni, è stata assediata dai soldati israeliani: “Dalla sera di venerdì alla mattina di domenica (presumibilmente dal 9 all'11 gennaio, ma Arafat e gli altri protagonisti della vicenda sono confusi rispetto alle date) siamo rimasti chiusi in casa, una settantina di persone, gli uomini al piano superiore, le donne sotto. Non potevamo bere, mangiare, usare i servizi”. Solo il terzo giorno è stato loro permesso di uscire di casa, per riunirsi ad altre centinaia di persone che scappavano dalle loro case. “Per fortuna mio padre sa un po’ di ebraico ed è riuscito a parlare con un soldato più disponibile degli altri – spiega Subh – si è informato al telefono e dopo qualche ora ci ha detto come tornare a casa senza correre pericoli”.
Ma i danni all’impresa agricola di famiglia sono pesanti, oltre i 40.000 dollari.

La strage di Sammuni e l'accanimento contro Zeitun forse dovevano essere un monito per tutti i Ghazawi, nella seconda fase dell'operazione Piombo Fuso.

venerdì 23 gennaio 2009

Due nemici per Gaza

Gaza City. S. ha 24 anni e la consapevolezza che la sua vita, vista da un aereo da guerra, "è una macchia di colore rosso caldo" e che da un momento all'altro, nel rientrare a casa dopo una serata con gli amici, può essere scambiato per un miliziano.
"Mi dico che magari lassù ci può essere una ragazza israeliana giovane, chissà forse se sono fotogenico mi salvo", e ride amaramente per stemperare la tensione di tre settimane in bilico fra vita e morte e di alcuni giorni di incredula tregua. "Questa volta è stata durissima, mai prima d'ora è stato paragonabile. Abbiamo davvero avuto paura di non farcela".

Ma, allo stesso modo, S. non esita a mettere sullo stesso piano israeliani e miliziani di Hamas: "Immagina che cosa vuol dire sentire le loro voci, fuori al di là del muro di casa tua, mentre bisbigliano nella notte. E pensare che se dall'alto li vedono sei fottuto". E bisbigliare con i famigliari, magari spostarsi in fondo a una stanza, nell'angolo più interno della casa, perché non si accorgano che ci sei e hai paura: "Tanto, per loro ammazzarti che cosa vuoi che cambi? Ti mandano in paradiso...".

Gaza del dopo guerra ha il volto di S. e di tutti coloro che vogliono solo vivere e fare progetti, riaprire negozi, scuole e uffici. Andare a fare la spesa senza perdere le gambe, di questi tempi così a rischio. Nel mirino delle rappresaglie di Hamas - si segnalano i primi casi di pazienti gambizzati negli ospedali di Gaza - e degli attacchi aerei israeliani.
All'ospedale pubblico di Shifa, non si contano i casi di amputazione di uno o più arti, i letti delle unità di ortopedia e chirurgia sono ancora pieni. Accedervi e parlare con i pazienti, ma ancor di più con parenti ammassati nei corridoi e nelle stanze, storditi dall'incertezza per il futuro, è semplice e rapido, superata la diffidenza del primo istante con gli amministratori - si dice che Shifa sia saldamente in mano ad Hamas e forse è vero, ma nessuno ostacola il colloquio con medici e pazienti - Per alcuni malati, si tratta di un soggiorno temporeaneo perché destinati a strutture estere, dove i loro casi saranno trattati con maggiori risorse tecniche.

Gaza stritolata fra due nemici, uno interno e uno esterno, è anche 200.000 studenti che oggi, sabato 24, torneranno a scuola. E' il ristorante di pesce che riapre le sue cucine. Il valico di Erez che sforna cooperanti internazionali. E' il sorriso di S. che lascia la comitiva di amici stranieri e se ne va a casa, nella notte, senza chiedersi chi lo stia osservando dal cielo.

giovedì 22 gennaio 2009

Primo giorno a Gaza

Gaza City. Rieccoci. Non bastava la sveglia del mattino, al ritmo delle esplosioni di gioia della marina israeliana al sorgere del sole. Adesso i gentili saluti si ripetono, con i migliori auguri di buona notte.
Vorrà dire che è il tempo della riflessione, più che del sonno ristoratore..
Prime immagini di Gaza nel dopo-guerra e brandelli di conversazioni da giornalai.

Precisione chirurgica a Gaza Città e violenza debordante nei centri più piccoli, specialmente nel Nord della Striscia. Non si può non accorgersene: l'aviazione ha ritagliato obbiettivi strategici con precisione inquietante, sgretolando commissariati di polizia, ministeri, caserme e qualsiasi centro strategico legato al movimento di resistenza. Ed ecco palazzine sbriciolate come crackers affiancare moschee e scuole intatte.

La fase terrestre di 'Piombo fuso' non è andata molto per il sottile, invece. All'insegna del "prendi tutto e scappa, che faccio saltare in aria il tuo mondo", l'avanzata ha spianato la vita di migliaia di persone. E pure la morte: il cimitero all'ingresso di Jabalya è scomparso. Quello che un tempo doveva essere il suo custode scava da giorni per riportare alla luce le bare e poi riscava per seppellirle in modo decoroso.

Piccoli flash senza senso:
1-un'ambulanza stritolata fra le macerie di una palazzina. Come ci è finita? E' stata fatta parcheggiare dagli israeliani prima che la casa fosse rasa al suolo! Ovviamente.

2-Bambini ai bordi della strada che brucano l'erba per colazione... No comment

3-La stazione dei vigili sventrata di fronte ai palazzi Abu Ghalion (in cui vivo), intatti.

4-La scuola Unrwa di Jabalya, trasformata in centro di evacuazione. Poveri stracci appesi alle finestre, bambini in cortile, genitori accasciati per terra, sopraffatti dai pensieri....

Silenzio, i fuochi artificiali sono finiti. Si dorme, a Gaza.

martedì 20 gennaio 2009

Gaza guarda avanti

I Gazawi sono così. Hanno già voglia di ricostruire, di ricominciare, di dimenticare. E Sami è al settimo cielo perché le armi tacciono....

lunedì 19 gennaio 2009

Il silenzio di El Azhar

Il Cairo. Fuori dalla grande moschea universitaria di Al Azhar, centinaia di agenti di polizia, in uniforme, tenuta anti-sommossa o in borghese. E il silenzio dell’attesa, gli sguardi attenti sui passanti, la rigidità nei movimenti man mano che si avvicina la fine della Khutba, la preghiera del venerdì.
Dentro, parole di fuoco contro l’aggressione israeliana nella Striscia.

I fedeli lo sanno che nelle strade non sarà loro permesso dissentire, urlare il proprio sdegno, manifestare. La moschea è sotto assedio, come Ghaza. E uno ad uno i mu’minun escono al termine del rito collettivo a testa bassa.

Dall’alto dei tetti di Khan El Khalili, pochi spettatori osservano la scena, ma perdono rapidamente interesse. Samia lascia le finestre aperte e torna a lavare i panni. “Puoi stare quanto vuoi. Oggi non succederà niente. Quando esci, chiudi la porta.... ”.

giovedì 15 gennaio 2009

In viaggio verso Rafah

C'era una volta un autobus rumoroso e traballante, in viaggio dal Cairo verso una meta indefinita, laggiù verso Oriente.
Viaggiavano sull'autobus, bardato a festa con striscioni colorati, personaggi curiosi, di diversa provenienza. Studenti europei in cerca di emozioni, studenti egiziani in cerca di libertà, attivisti politici di ogni dove in cerca di identità. E giornalisti, ma quelli non sanno bene neanche loro che cosa cercano.

L'allegra compagnia - velata, svelata, coperta o disinibita - pregava e cantava, mangiava, fumava o ingannava l'attesa dormendo...ma sempre con un occhio aperto sulla strada. Perché tutti sapevano che i tranelli sarebbero stati numerosi, ingannevoli e snervanti. E così fu.

Un primo posto di blocco, le trattative con i robottini in uniforme, il valzer di documenti e telefonate al piano superiore. E il sit-in di rito, la camminata al trotto sulla strada, per ribadire la ferma volontà di andare avanti.
Quegli altri, quelli che li aspettavano fin dal mattino e che scrutavano l'orizzonte per scorgere l'autobus colorato, si limitavano a fare il loro lavoro. Cioè parlare, discutere, controllare, esitare, chiamare a raccolta colleghi più esperti, perdersi nel fumo di sigarette infinite e truci sguardi carichi di potere.

Ad ogni posto di blocco, la signora in marrone seduta in seconda fila invocava l'intera sfera celeste e tutti, credenti e no, incrociavano le dita, certi che sotto quei panni multistrato di tutte le varietà del marrone, ci fosse una spia del nemico.
Seguirono altre due fermate obbligate - e svariate soste volontarie, perché si sa che uno spuntino non si nega neanche alla comitiva più seria - ma ormai la speranza di superare le colonne di Ercole si era insinuata nella mente di tutti....

Miraggio, illusione, sogno infingardo.
Evaporato in pochi secondi, sull'onda di un'inversione di marcia. Al ritmo dei bastoni sbattuti sulla carrozzeria sofferente dell'autobus, delle urla rabbiose provenienti dall'esterno, di un pianto sommesso laggiù in seconda fila.
Si torna a casa, allegra comitiva. Si sa, gli autobus seri non vanno in giro di notte, tutti bardati a festa, e per di più diretti verso Oriente.