mercoledì 25 febbraio 2009

Il terrore che ferma il tempo

Ore 18.30, domenica 22 febbraio, Il Cairo. Entriamo nella moschea universitaria di Al Azhar da un'entrata laterale, al termine della preghiera non tutti i fedeli sono usciti e noi non vogliamo disturbare. Qualcuno sta ancora meditando o si trattiene con altri compagni. Senza scarpe e in rispettoso silenzio, io con la testa velata, ci aggiriamo per i vasti locali interni. Poi una pausa sotto il porticato, una sosta di fronte a un portone giusto il tempo di leggere il cartello affisso - "Sala della preghiera per le donne" - e un boato improvviso squarcia l'aria.

In pochi secondi, gli sguardi dei presenti si rincorrono frenetici e dubbiosi. C'è chi parla di incidente automobilistico, di una bombola del gas, di un incendio. Ma i guardiani di Al Azhar si accingono a chiuderci dentro per motivi di sicurezza e urlano confusamente. Non so che cosa mi prende, ma è più forte di me. Non voglio rimanere in trappola, devo uscire, devo sapere, stringo le scarpe che ho in mano e schizzo fuori in strada scalza. Non mi giro neanche. So che il mio compagno di viaggio mi seguirà.

Imboccare il sottopassaggio e farsi largo fra la folla in controsenso è un attimo. Pochi minuti dopo la deflagrazione siamo di fronte a una scena tanto reale quanto cruda. C'è gente che piange, polizia dappertutto, ambulanze in arrivo, vigili del fuoco. I negozianti stanno chiudendo, disperati. E la parola fino ad allora innominata esce allo scoperto. Combòla. Bomba. Punto e basta, nient'altro da dire. L'illusione che quella che sento come la mia città sia indenne dall'incubo terrorismo - come se quattro anni, quelli passati dall'ultimo episodio, fossero un'eternità - si infrange come un vetro. Mi sento una stupida.

Non mi resta che fare il mio mestiere, telefonare e dare vita alla giostra. E poi parlare con la gente, ascoltare le storie, farmi intervistare dalla radio francese - i media francesi sono i più coinvolti, l'unica vittima è una giovane studentessa in gita scolastica -. Parlo e scrivo, racconto e mi carico. Solo 24 ore dopo, passata l'ubriacatura, mi rendo conto che sono viva. E che per pochi minuti, per un caso, per un naturale disinteresse verso i luoghi pù turistici, io e il mio compagno di avventura ci siamo.

Mi scrive una collega più grande ed esperta: "Chissà perchè, noi che viaggiamo in questi posti, diamo come per scontato di beneficiare, con i nostri colleghi, di una sorta di immunità. Fino a quando non scopriamo che così non è".

Nessun commento: