"Ma dove stai andando, c'è ancora un sacco di lavoro!?". "Uffa, mi fumo una sigaretta, posso?". Dialogo surreale da me intercettato sulla soglia del makwagy sotto casa (la mia stireria-tintoria di fiducia), un bugigattolo di pochi metri quadri dentro al quale stirano come ossessi due omini consunti dal caldo.
Mentre la 'coordinatrice' dell'équipe è la moglie di uno dei due, donnina dall'intelletto fino che passa il tempo a tenere la contabilità, a curare le pubbliche relazioni con i negozianti vicini (un khudari, fruttivendolo, e un baqal, un droghiere-pizzicagnolo, insomma) e a discettare di politica mediorientale con i clienti...
Con lei assolvo alla mia funzione informativa nel più alto senso del termine. La signora mi sfila dalle mani pantaloni e stracci vari - che passa al marito-servo - e mi 'accende' come una televisione. E io mi sintonizzo sulla funzione 'lingua araba' e la nutro di aggiornamenti. Poi passiamo alla fase talk-show, ma i due schiavi stiranti non hanno diritto di parola. A volte si aggiunge qualche altro cliente di passaggio o un vicino o il bauab (il portinaio) del palazzo (ecco perché non lo trovo mai...). E via di botta-risposta, opinioni, commenti, rifessioni mai banali su questo nostro angolo di mondo e su come gli europei ci vedono (ops, li vedono) e su come la sottoscritta dovrebbe raccontare, spiegare, chiarire...
Dietro di noi la foto della Mecca, colma di pellegrini. "Vorrei vederla, ma non mi sarà mai possibile", mi lamento. E il silenzio scende sugli sbuffi dei ferri da stiro.
"Hai ragione, non è giusto", mi risponde la mia fedele telespettatrice. "Quando intervisti un pezzo grosso, uno Sheikh, chiedigli perché e poi fammi sapere".
Potere della parola, che apre gli occhi e ferma il tempo. Che sfata i luoghi comuni e regala momenti imprevisti di armonia vera.
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giovedì 19 febbraio 2009
mercoledì 26 marzo 2008
Scambio di doni
Hanan ha 26 anni, grandi occhi castano scuri e un corpo minuto, perso nel grande e accollato vestito rosa che le cade fino ai piedi. Il viso è segnato dal sole e dal dolore, forse inseparabili per i fellayin (gli agricoltori) dell'Alto Egitto.
Seduta nel cortile di casa – un ampio e fresco edificio di fango essiccato, costruito da lei e dalla madre a mani nude – racconta con rassegnazione l’incubo vissuto negli ultimi dieci anni, da quando cioè uno zio ha deciso di darla in moglie a un uomo di 60 anni.
Nel villaggio di Saqulta, nel governatorato di Sohag, il suo caso è uno fra mille. Nessuno si stupisce, se non gli operatori delle ong e gli attivisti per la difesa dei diritti umani. Quelli che si commuovono quando Hanan chiede aiuto per riavere il bambino nato dall'unione con quell'uomo.
Per sé non chiede niente, solo un microcredito per allevare qualche capra.
Il suo sorriso sulla porta di casa è la più grande scoperta del mio viaggio a Sohag.
Seduta nel cortile di casa – un ampio e fresco edificio di fango essiccato, costruito da lei e dalla madre a mani nude – racconta con rassegnazione l’incubo vissuto negli ultimi dieci anni, da quando cioè uno zio ha deciso di darla in moglie a un uomo di 60 anni.
Nel villaggio di Saqulta, nel governatorato di Sohag, il suo caso è uno fra mille. Nessuno si stupisce, se non gli operatori delle ong e gli attivisti per la difesa dei diritti umani. Quelli che si commuovono quando Hanan chiede aiuto per riavere il bambino nato dall'unione con quell'uomo.
Per sé non chiede niente, solo un microcredito per allevare qualche capra.
Il suo sorriso sulla porta di casa è la più grande scoperta del mio viaggio a Sohag.
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