giovedì 24 novembre 2011

Tutti contro Bashar

Tutti contro il regime siriano. Dopo aver chiuso uno o entrambi gli occhi sulla rivolta in atto in Siria da marzo a questa parte (costata la vita ad almeno 3500 persone, secondo le Nazioni Unite, ndr), la Lega araba sembra improvvisamente colta da attivismo e intraprendenza.

Come confermato dalle informazioni in possesso del Dipartimento di Stato americano: “Quasi tutti i leader arabi dicono la stessa cosa: il regime di Assad deve finire. Il cambiamento in Siria è inevitabile”, ha detto ieri Jeffrey Feltman, segretario di Stato aggiunto per il Medio Oriente, riferendo la situazione a Damasco a una sottocommissione degli Affari Esteri del Senato americano. “Alcuni leader arabi hanno già iniziato a proporre l'asilo ad Assad per indurlo a lasciare con calma e rapidamente”, ha aggiunto Feltman, dando così il metro delle pressioni cui é sottoposto in queste ore il presidente-oftalmologo.

Meglio tardi che mai, si potrebbe commentare, ripercorrendo in sequenza il domino di dittatori nel quasi totale silenzio della principale organizzazione politica dell'area. Un appuntamento con la storia fallito rovinosamente, un'occasione di riscatto dall'influenza delle potenze ex colonizzatrici lasciata sfuggire per sempre. Ma non tutto è perduto, devono essersi detti i rappresentanti delle 22 nazioni della Lega Araba, cogliendo nella rivoluzione siriana gli elementi per tornare sotto i riflettori e, allo stesso tempo, liberarsi di un nemico scomodo.

Il dittatore Bashar Al Assad, classe 1965, ha due grossi difetti che lo rendono odioso al 'palazzo di vetro' del Cairo, indirizzato nelle sue scelte dalla diplomazia egiziano-saudita: é di fede musulmana alawita e rappresenta la testa di ponte degli ayatollah iraniani nel mondo arabo. Di che candidare il presidente siriano all'eliminazione ben più di Muammar Gheddafi, a suo tempo ostile alla Lega eppure 'tollerato'.

Nel dettaglio, gli alawiti, setta sciita fondata nel X secolo, rappresentano solo il 20% della popolazione siriana, a fronte di una maggioranza sunnita. Più o meno la stessa proporzione esistente fra sciiti e sunniti nella comunità musulmana mondiale (30% contro 70%, secondo stime). Gli Assad, padre e figlio, hanno sempre garantito la tolleranza religiosa, forse proprio per il loro passato di emarginazione: ancora oggi gli alawiti sono considerati eretici dai sunniti, mentre sono stati legittimati dagli altri sciiti solo negli anni '70. Il discorso vale anche per la comunità cristiana (pari a circa 900 mila persone), che ora trema di fronte a un futuro dai contorni incerti.

Ma Damasco é solo una pedina di uno scacchiere regionale complesso e instabile. La Siria riflette il conflitto politico-religioso in atto in Medio Oriente: Teheran, paladina della minoranza sciita, contro Riad, custode della tradizione sunnita. Favorendo la cancellazione del regime di Damasco e la nascita di una nuova leadership 'amica', l'Arabia Saudita intende riguadagnare il terreno politico perso dall'11 settembre in poi e fare cosa gradita agli Stati Uniti. Proprio perché si sta progressivamente disimpegnando dal Medio Oriente, Washington, dal canto suo, ha tutto l'interesse a lasciare dietro di sé Paesi 'vedetta' in grado di tutelarne gli interessi.

Domani, i ministri degli Esteri dei 22 si riuniranno nella sede centrale del Cairo, affacciata su quella piazza Tahrir ormai divenuta sinonimo di rivoluzione, per decidere il da farsi contro Damasco - forse sanzioni, forse congelamento di beni -, colpevole di aver violato l'accordo di tregua con gli oppositori, firmato solo una settimana fa in Qatar. In realtà, risulta evidente che, se anche Assad fermasse l'esercito e si sedesse a un tavolo con il Consiglio nazionale siriano (Cns, il fronte unito della rivolta), il destino del regime di Damasco sarebbe comunque segnato.

Contro il comune nemico siriano, la Lega Araba sembra aver trovato una parvenza di unità.

(Federica Zoja su Avvenire 11 Novembre 2011)

Cercasi leader disperatamente

A 2 anni dal suo rientro in patria dopo una carriera diplomatica che lo ha portato alla direzione generale dell'Agenzia internazionale delle Nazioni unite per l'energia atomica (Aiea, 1997-2009), per Mohammed Mustafa El Baradei (giugno 1942, Cairo) potrebbe essere finalmente giunta l'ora di un incarico di prestigio.

Se, infatti, il Consiglio supremo delle forze armate (Csfa) e i principali attori politici coinvolti nelle trattative di queste ore giungeranno a un accordo intorno al suo nome, sarà lui il nuovo primo ministro egiziano. Si presuppone, tuttavia, che si tratterebbe di un incarico temporaneo, visto che i cittadini saranno chiamati a rinnovare, mediante un lungo processo elettorale, la Camera bassa del Parlamento fra il 28 novembre e la prima metà di gennaio. E all'insediamento della nuova assemblea dovrà corrispondere un governo che ne rifletta composizione ed equilibri.

La figura del premio Nobel per la pace (nel 2005, insieme all'istituzione di cui era direttore) é nota alla comunità internazionale soprattutto per la sua opposizione all'intervento militare americano in Iraq (2003), che Washington motivò con la presenza di armi di distruzione di massa nel Paese arabo. La storia diede ragione al diplomatico egiziano, che aveva affiancato Hans Blix durante le ispezioni Aiea e aveva escluso l'esistenza di armi nucleari o chimiche in Iraq.

Ma sul politico Mohammed El Baradei finora si é capito poco, come hanno messo in evidenza i media egiziani. Tornato in Egitto all'indomani del pensionamento (dicembre 2009), El Baradei ha cercato di raggruppare sotto la propria leadership le diverse anime dell'opposizione laica al regime di Hosni Mubarak, creando l'Alleanza per il cambiamento (febbraio 2010). Confuse e contraddittorie le mosse successive: il corteggiamento della Fratellanza musulmana e la partecipazione in prima fila alle più importanti celebrazioni religiose islamiche; gli ammiccamenti alla comunità cristiana copta e gli incontri con il patriarca Shenouda III; gli abboccamenti con Amr Moussa, ex segretario della Lega Araba, e frequenti viaggi all'estero per colloqui informali con i principali partner economico-politici dell'Egitto.

Un lavorìo frenetico in tutte le direzioni, probabilmente in vista di uno scontro con Mubarak alle presidenziali del 2011, ma senza mai presentare una piattaforma programmatica. La primavera egiziana ha scosso El Baradei. Era la fine di gennaio quando, mostrandosi in piazza Tahrir in mezzo ai dimostranti sosteneva: “Mubarak se ne deve andare” e invocava riforme democratiche. In quel frangente storico, a dargli popolarità e autorevolezza ci hanno pensato le forze di polizia, costringendolo agli arresti domiciliari, e gli islamisti, appoggiando il suo nome per la guida di “un governo di salvezza nazionale”.

Ora, verrebbe da dire, ci risiamo. Il regime – sempre quello di prima, solo orfano del Faraone Mubarak – traballa, gli islamisti moderati orchestrano una via d'uscita e il moderato Mohammed El Baradei non scontenta nessuno. Ma tale fiducia potrebbe rivelarsi un trabocchetto: una premiership di basso profilo rischia di 'bruciare' le ambizioni presidenziali del politico, troppo mite e sobrio per l'arena egiziana, secondo quanti lo hanno incontrato nella sua villetta alla periferia del Cairo.

Intanto, per uscire dall'ombra, El Baradei denuncia i crimini dell'esercito e comunica con il mondo via Twitter: che nessuno dica che è lontano dai giovani.

(Federica Zoja su Avvenire del 24 Novembre 2011)

Marocco al voto fra timori e speranze

Nell'anno del crollo di regimi autoritari considerati inamovibili, prosegue lo sforzo riformatore della monarchia costituzionale marocchina, finora abile a proteggersi dalla polvere delle macerie tunisine ed egiziane. L'ultima e decisiva tappa del 2011, a quasi 5 mesi dal referendum che ha sancito il ridimensionamento dei poteri del sovrano a favore di quelli esecutivo e legislativo, sarà il voto politico del 25 novembre, preceduto da 2 settimane di agguerrita campagna elettorale.

Venerdì prossimo, in anticipo di un anno rispetto alla naturale scadenza della legislatura, circa 14 milioni di cittadini aventi diritto al voto (a fine 2009, secondo la Banca Mondiale, la popolazione complessiva era di 32 milioni, di cui 6 all'estero) saranno chiamati a rinnovare l'Assemblea dei rappresentanti, la camera bassa del Parlamento marocchino (395 deputati, di cui una quota del 30% riservata alle donne). Nel numero dei votanti sono inclusi i marocchini maggiorenni residenti all'estero, che, in virtù della recente modifica della costituzione, potranno delegare un parente in patria. La contrazione dei tempi della politica é stata decisa dal re Mohammed VI quando ancora la febbre rivoluzionaria del suo popolo era contenuta. Il clima politico, tuttavia, é incandescente e incerto.

In una galassia punteggiata da 33 partiti, sono 2 i principali raggruppamenti: da un lato quello degli islamisti moderati di A'dala ua Tanmia (Giustizia e sviluppo), dati per favoriti dopo il successo dei colleghi tunisini, in tandem con il partito di governo uscente, il conservatore Istiqlal (Indipendenza), dall'altro il cosiddetto G8, ovvero gli 8 movimenti, fra liberali, socialisti e laburisti, riuniti sotto l'insegna della 'Coalizione per la democrazia'.

I sondaggi degli ultimi giorni danno in sostanziale parità le parti. I detrattori del blocco conservatore denunciano le mille pecche del partito marocchino più vecchio, Istiqlal appunto (1943): corruzione, clientelismo, incapacità di affrontare la crisi economico-sociale. E ricordano all'opinione pubblica laica la recente battaglia degli islamisti per introdurre nella costituzione la dicitura “Marocco, Stato islamico”: se fosse solo il primo passo verso scenari più estremi? Chi, invece, critica il G8, denuncia l'eterogeneità della coalizione, nata poco più di un mese fa per sbarrare la strada a un governo confessionale. Quanto ai giovani attivisti del movimento 20 Febbraio, organizzatori delle proteste in Marocco, hanno chiesto agli elettori di boicottare il voto, ritenendo tradite già dal referendum del 1° luglio le richieste della 'primavera marocchina'.

Secondo Wikileaks, Mohammed VI già nel 2005 la pensava così: “Non lasciatevi ingannare dagli islamisti – diceva a un senatore Usa – perché sembrano gentili e ragionevoli. Sono tutti anti-americani”. Eppure gli islamisti moderati intendono appoggiare la monarchia, contrariamente ai radicali di formazioni minori che ne vogliono la cacciata.

Sullo sfondo del duello fra islamismo e laicità, una situazione economica precaria, condizionata in negativo dalle difficoltà dell'eurozona, cui il Marocco deve i due terzi dei propri scambi commerciali: a fine 2010 il tasso di povertà era del 28%, la disoccupazione giovanile al di sotto dei 34 anni al 31,4%.

Grande assente nei programmi è la politica estera. Eppure i dossier scottanti non mancano: in primis, la normalizzazione delle relazioni con l'Algeria, con cui il Marocco, almeno sulla carta, é ancora in guerra; poi, i nuovi equilibri regionali e il legame con gli Stati Uniti d'America. Merita un discorso a parte la questione Sahara.

Ma sul voto del 25 pesa soprattutto l'incognita astensionismo: nel 2007 andò alle urne solo il 37% degli aventi diritto. Il futuro del Marocco é letteralmente in mano ai giovani, se é vero che il 57% dei votanti ha meno di 35 anni. Sul loro diritto a prendere in mano il destino del Paese vigileranno 4mila osservatori, ha garantito il Consiglio nazionale per i diritti umani.

(Federica Zoja su Avvenire di Giovedì 24 Novembre 2011)

domenica 13 febbraio 2011

La vera forza della divisa è il mondo degli affari

Sarà davvero sufficiente l'uscita di scena del presidente Hosni Mubarak a far voltare pagina alla Repubblica araba d'Egitto?

La risposta non può che essere negativa. Il raìs, in realtà, è solo la punta di un iceberg mastodontico, quello di una leadership militare che lo stesso presidente ha coccolato, nutrito, fatto arricchire nel corso di tre decenni. Fra Mubarak e i suoi generali esiste un rapporto di osmosi tale, fra interessi economici e politici condivisi, per cui oggi è difficile immaginare la sopravvivenza degli uni senza l'altro.

Non sorprende che in Egitto, caduto il tabù della salute del presidente, anche dopo 18 giorni di proteste popolari non si parli apertamente degli interessi economici in divisa: le forze armate, la vera classe dirigente del Paese, sono rimaste sempre nell'ombra lasciando ad altri, i servizi segreti, il compito di sporcarsi le mani e attirarsi l'odio degli oppositori. Ancora oggi l'esercito gode della stima della popolazione, che lo considera super partes. Ma presto, c'è da scommetterci, l'opinione pubblica comincerà a sbirciare nelle tasche dei suoi vertici militari e a chiedere spiegazioni.

Si ritiene che almeno il 45% dell'economia egiziana sia controllato dall'esercito, che negli anni ha ricevuto in 'dono' terre, fabbriche, proprietà immobiliari e complessi industriali in tutto il Paese. I militari hanno goduto dei proventi non solo dell'industria bellica – con commesse da capogiro, negli anni '80, da Saddam Hussein, dal Kuwait, dalla Somalia e dal Sudan, in particolare – ma anche di quella civile.

Ecco dunque che le forze armate traggono guadagno dall'industria alimentare, tessile, manifatturiera, dall'agricoltura, dal turismo, dall'edilizia, da cementifici e acciaierie, dal comparto sanitario e da quello degli idrocarburi senza essere mai tenute a rendere noto il proprio bilancio: tutto passa sotto il grande ombrello protettivo del Segreto di Stato. Una volta in pensione dall'esercito, comandanti e generali assumono prestigiosi incarichi di governo oppure si convertono al business nelle maggiori realtà industriali, talvolta di proprietà dello Stato talvolta privatizzate.

Un intreccio fra affari, politica e sicurezza che ricorda da vicino il modello americano, di cui l'Egitto è un'emanazione nel mondo arabo: ogni anno, un fiume di dollari (1,3 miliardi) scorre da Washington verso le casse del Cairo per finanziare la stabilità dell'alleato arabo, ritenuta indispensabile per il quieto vivere di Israele. Soldi di cui i cittadini egiziani non vedono neanche l'ombra, perché finiscono direttamente al ministero della Difesa e della produzione militare (circa 42.000 i dipendenti): è di almeno 250 milioni di euro annui il profitto netto derivante da attività civili. Il budget ministeriale, esclusi gli aiuti americani, è di 6 miliardi di dollari.

Al decimo posto nel mondo per grandezza (tra 400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservisti sarebbero altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito, marina, aeronautica e aviazione militare, cui si aggiungono forze paramilitari. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di confine, che però fanno capo al ministero degli Interni.

Ora ai militari egiziani il compito, paradossale, di pilotare una svolta epocale verso una società sempre più civile e meno militarizzata che ne lederà gioco forza gli interessi e ne ridimensionerà il ruolo. In parte, il ministro della Difesa Mohammed Tantawi sembra aver già dimostrato di essere l'uomo giusto, lui che, conosciuto come il “cagnolino” di Mubarak fino a pochi giorni fa, non ha esitato, secondo indiscrezioni, a criticare il presidente con la controparte statunitense. Dimostrando di voler saltare giù dal treno prima che deragliasse.

Avvenire, 12 Febbraio 2011

Esce di scena l'ultimo Faraone

Dopo 17 giorni di resistenza a oltranza, l'ultimo faraone egiziano sembra ormai destinato a uscire di scena. L'incertezza regna nella capitale, fra indiscrezioni su una sua partenza già avvenuta e su trattative dell'ultimo minuto per convincerlo a salire su un volo per Londra, dove parte della famiglia ha già traslocato.

Ma se alla fine Hosni Mohammed Sayyed Mubarak accetterà di rimettere il proprio incarico di presidente della Repubblica araba d'Egitto, per il grande Paese nordafricano si aprirà una strada del tutto nuova, non priva di incognite per i suoi 80 milioni di cittadini e per le nazioni limitrofe.

Una fine, quella del comandante dell'aviazione militare Mubarak, nato il 4 maggio del 1928 nel villaggio di Kafr El Mesalha, nel governatorato di Menoufia, che farà discutere a lungo, per le sue modalità del tutto inattese: i più, infatti, si aspettavano che colui che è stato il monarca assoluto dell'Egitto post-Sadat lasciasse orfano il suo 'regno' all'improvviso, per gravi motivi di salute. Mubarak è affetto da anni da un mare incurabile che lo ha costretto a più riprese a recarsi in Germania o in Francia per terapie tanto intensive quanto riservate. Da ultimo, meno di un anno fa il presidente è stato operato alla cistifellea nella clinica tedesca di Heidelberg, per poi fare ritorno in patria per la convalescenza dopo due settimane: in quell'occasione, il premier Ahmed Nazif ne ha assunto i poteri, mentre l'anziano raìs si riprendeva nella residenza di Sharm El Sheikh, sul Mar Rosso.

Tuttavia la malattia, probabilmente un tumore diffuso all'apparato digerente, non gli ha impedito in questi mesi di recarsi sovente all'estero in visita ai principali alleati economico-politici, fra cui quello italiano. Per rafforzare i legami, rassicurare gli 'amici' e mettere in guardia i nemici del regime, palesemente in attesa di scricchiolii sinistri. Ma il tam tam sul peggiorare del suo quadro clinico era sempre più insistente.

Nel luglio 2010, una fonte accreditata al Cairo ha dichiarato ad Avvenire: “Ormai ha un'autonomia di venti minuti. Lo tengono in piedi durante gli incontri ufficiali a forza di punture. Poi si ritira e crolla”. Per questo, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che a scalzare il 'faraone' sarebbe stata una ondata di proteste popolari, accese dall'esempio tunisino, con la spallata finale dell'esercito a dare il colpo di grazia.

Ma forse per Mubarak il volta faccia dei vertici militari e la piega presa dagli eventi nelle ultime tre settimane non rappresentano una sorpresa. Lui stesso, a detta di storici e analisti, è stato fra i protagonisti di un frangente simile, 30 anni fa. La carriera politica di Hosni Mubarak ha preso uno slancio inarrestabile nel 1975, con la nomina a vice presidente di Anwar Sadat: militare di carriera, medaglia al valore per il ruolo svolto alla guida dell'aviazione nella guerra dello Yom Kippur con Israele (1973), da quel momento Mubarak ha messo da parte il profilo militare a favore di quello diplomatico, con la gestione diretta del dossier più scottante, quello relativo a un trattato di pace con Tel Aviv.

E se ora i detrattori di Mubarak si ostinano a dire di lui: “É sempre stato un burattino nelle mani di generali più esperti e intelligenti”, il curriculum di quei primi anni di leadership sembra smentirli. Non solo il pilota diplomatosi all'Accademia del Cairo e specializzatosi in Unione Sovietica mostrò notevoli doti di mediazione, garantendo all'Egitto decenni di pace e sviluppo, ma si assicurò anche la fiducia di Washington, della maggior parte dei governi occidentali e, dopo un breve esilio del Paese dalla Lega degli Stati Arabi, anche un ruolo di primo piano per Il Cairo.

Pochi anni dopo, Sadat è stato ucciso da un gruppo di ufficiali su cui grava il sospetto di connivenza con frange islamiste radicali (sull'episodio e sul ruolo del vice presidente Mubarak i pareri sono discordanti) e il suo numero due è uscito definitivamente dall'ombra per assumere il controllo con pugno di ferro. Le similitudini con l'ascesa di Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e vero responsabile dei dossier esteri dagli anni 2000 in poi, sono evidenti.

Senza esitazioni né cedimenti Mubarak ha tenuto le redini di un Paese cruciale per lo scacchiere mediorientale, pluri-confessionale, in via di sviluppo economico e al centro di un processo di islamizzazione. In 30 anni non ha mai abrogato le leggi d'emergenza proclamate all'indomani dell'assassinio di Sadat (6 ottobre 1981), ma se ne è servito per stroncare sul nascere qualsiasi opposizione al suo potere assoluto. Non ha mai nominato un vice presidente né un vice segretario del suo partito, il Nazionale democratico.

Ha tollerato la Fratellanza musulmana, principale movimento di opposizione, ma non ne ha mai avallato il ruolo politico in modo ufficiale. E alle opposizioni laiche ha concesso di esistere, ma non di alzare la testa: lo sa bene Ayman Nour, giovane avvocato in corsa alle presidenziali del 2005 (le prime aperte a più candidati) e per questo 'punito' con 5 anni di carcere.

Di lui tutto si potrà dire, ma non che sia stato incoerente o contraddittorio, come invece il vicino Gheddafi: alleato degli Stati Uniti sempre e comunque, Mubarak non ha condannato gli interventi militari in Afghanistan e Iraq. E nemmeno quelli israeliani in Libano (2006) e a Gaza (2008-2009). Lo sguardo sempre rivolto a Ovest. Indubbiamente anche per calcolo e guadagno personale del proprio clan.

La ferocia nel perseguire i nemici non gli è mancata, ma questo non ha inorridito gli alleati occidentali: insieme al braccio destro Suleiman, Mubarak ha elaborato la pratica delle rendition, i trasferimenti di sospetti islamisti in Paesi come l'Egitto, appunto, in cui la tortura è utilizzata da servizi e polizia.

Un solo cedimento ai sentimenti, in tanti anni di potere, gli è probabilmente stato fatale come un tallone d'Achille: la decisione di lasciare al figlio lo scettro, non dando peso al dissenso dei vertici militari.

Avvenire, 11 Febbraio 2011

lunedì 3 gennaio 2011

La guerra in sei parole

Raccontare l’orrore della guerra, dell’alienazione in un Paese ostile e ostico, attraverso sei parole, come se si trattasse di un verso poetico.

È questa l’idea che Larry Smith, fondatore della rivista culturale americana Smith nel 2006 insieme a Tim Berkow, ha avuto per comunicare ai propri lettori l’esperienza di migliaia di soldati statunitensi inviati in Afghanistan e Iraq.

Un modo più efficace di documentari, analisi geopolitiche, servizi giornalistici sulla sindrome post-bellica che affligge i militari al loro rientro in patria, a giudicare dai commenti entusiastici dei critici e dall’adesione dei diretti interessati.

“Six-word memoirs”, in realtà, è un progetto editoriale ideato nel 2008 da Smith magazine per raccogliere la storia di ciascuno, perché «tutti hanno una storia», si legge sul sito web della testata. Ci sono “memoirs” sull’adolescenza, sull’amore, sulla società americana, sul 2010, sull’arte, sul cibo, sull’ecologia e sulla vita nell’era digitale.

In comune, tutte le antologie hanno il fatto di essere state create da “Scrittori famosi e oscuri”, recita lo slogan di Larry Smith.
Ma il progetto “Six-word memoirs” applicato ai conflitti in Medio Oriente ha rapidamente assunto uno spessore diverso, meno scanzonato e più introspettivo.
Smith ha a cuore l’argomento guerra, cui ha dedicato una graphic novel, “Shooting war”, ambientata nel 2011 in piena guerra totale al terrorismo.

Dopo anni di collaudate partnership con ong attive nella lotta all’alcolismo, alla depressione, alla dipendenza da stupefacenti, Smith ha deciso di collaborare con l’Associazione americana per veterani di Afghanistan e Iraq (Iava) e ha messo a disposizione sul proprio sito un “muro”.

È lì che i reduci possono scrivere ciò che vogliono, in totale anonimato. Ecco alcuni dei più recenti post: «Sabbia, terra, sacrificio, storie di sofferenza», «Guerra, solo gli strumenti sono cambiati», «Quando cessano gli incubi?», «Vinta la guerra fisica, sto ancora combattendo quella mentale», «Tutte intorno illusioni, fatele smettere», «Membro orgoglioso di una confraternita sfortunata».

Una prima edizione di “La guerra in sei parole” è stata già pubblicata, ma si prevedono aggiornamenti e riedizioni.
Attraverso “La guerra in sei parole” hanno ritrovato voce tutti quei soldati condannati al silenzio dopo il loro rientro, talvolta così soli da scegliere il suicidio: di tutti coloro che ogni anno si tolgono la vita negli States, il 20% è rappresentato da veterani di guerra.

http://www.lettera43.it/cronaca/5159/la-guerra-in-sei-parole.htm