giovedì 25 novembre 2010

Pensar male va sempre bene?

Mentre la vicenda irlandese e il destino del Portogallo monopolizzano l'attenzione dell'Unione europea (nell'attesa che l'occhio lungo di Bruxelles si sposti dalle immondizie napoletane ai conti del Bel Paese), l'Ue rischia di perdere di vista un partner privilegiato nel mondo islamico, in predicato di diventare un Paese membro da 50 anni: la Turchia.
O forse no. Non tutti gli osservatori interpretano le scelte strategiche di Ankara in materia di politica estera allo stesso modo.

In un editoriale apparso sul Corriere della Sera il 23 novembre, “Nato, Iran e La Turchia che ci sta lasciando”, di Giovanni Sartori, si legge: «La Turchia, ormai, sembra guardare all’Islam: il premier turco Erdogan, al vertice Nato di Lisbona (il 19 e il 20 novembre 2010, ndr), è riuscito a ottenere che l’Iran venisse escluso dagli Stati che minacciano l’Occidente, per l’appunto protetto dai militari dell’Alleanza atlantica. Così abbiamo perso la Turchia e al tempo stesso rinforzato la mano del nostro più pericoloso nemico, l’Iran degli ayatollah. Davvero un bell’insuccesso».

Ma davvero la mossa turca risulta allo stesso tempo sorprendente e definitiva? Il commento di Valeria Talbot, ricercatrice esperta di partenariato euro-mediterraneo e Turchia dell’Istituto per gli studi di politica internazionale: «Vorrei fare alcune precisazioni, perché credo che questa prima lettura sia fuorviante. Il documento di cui parla Sartori riguarda lo scudo missilistico della Nato, che non sarà indirizzato a proteggere l’Europa da specifici Paesi, ma da generiche minacce. Peraltro nel testo non sono indicati i nomi di altre nazioni», quindi, se ne deduce, riportare solo il nominativo dell’Iran sarebbe stato inopportuno.

Dal punto di vista dell’analista dell’Ispi, in realtà, «la scelta turca in direzione mediorientale non è alternativa alla via europea, ma complementare». A maggior ragione se Bruxelles e Washington sapranno valutare questa «proiezione mediorientale» nelle giuste proporzioni.

Che Ankara sia delusa dalle difficoltà negoziali con l’Unione europea e dall’atteggiamento ostile di Francia e Germania non è una novità: questioni cruciali come Cipro e il rispetto dei diritti della minoranza curda costituiscono un freno all’avanzamento del dossier turco nel consesso europeo.

Tuttavia non è questa impasse a spingere il governo di Recep Tayyip Erdogan a rafforzare le relazioni con Tehran: «Questo è frutto di pragmatismo, di interessi energetici (l’Iran rappresenta il principale fornitore di gas di Ankara, ndr) e commerciali di rilievo (circa 10 miliardi di dollari annui di interscambio con aspettative di crescita fino a 30 mld)».

E l’attenzione turca alla questione iraniana in sede Nato riflette il tentativo di evitare una rottura fra l’Alleanza atlantica e gli ayatollah, spingendo per lo sviluppo in chiave civile del programma nucleare iraniano.
«Ma fin dagli anni ’80, e via via sempre di più nel decennio successivo, i turchi hanno rinvigorito le relazioni con il Medio Oriente. Basti pensare al flusso intenso di esportazioni verso l’Iraq che ha resistito anche durante la crisi» con il regime di Saddam Hussein.

Quanto a «sostenere che, per gli interessi occidentali sarebbe auspicabile che le strategie turche si articolassero in armonia con gli obiettivi americani ed europei, questo è un altro genere di discorso» ha commentato la ricercatrice.

Infine, la questione religiosa: l’esecutivo dell’Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo, di cui Erdogan è leader) e tutte le sue mosse sono perennemente sotto la lente d’ingrandimento.

Perché? La risposta è ovvia, anche pericolosa perché a rischio semplificazione: «Per la collocazione religiosa che noi stessi diamo alla Turchia, il modo in cui vogliamo dipingere il Paese», dando per scontato che ormai abbia girato le spalle alla laicità per un’islamizzazione senza ritorno.

Una semplificazione che potrebbe rivelarsi pericolosa e impedire di valutare lo scenario turco nella sua specificità, con un percorso diverso da quello di altri Paesi a maggioranza islamica della regione. E con differenti ambizioni politiche, come quella di ponte fra Occidente e Medio Oriente.

http://www.lettera43.it/articolo/3231/se-la-turchia-si-rivolge-verso-est.htm

venerdì 19 novembre 2010

Blogger egiziani nel mirino

Quando un regime trentennale dall'apparenza monolitica ha paura di un ventenne “internettiano” e dei suoi compagni “smanettoni”, forse è ora di dubitare sulla sua stabilità e rimanere in ascolto per percepirne gli scricchiolii.

Soprattutto perché il giovane in questione, Abdel Kareem Nabil Suleiman, 26 anni, unico blogger egiziano ad aver scontato una pena detentiva (di quattro anni) per i suoi scritti sul web, ritenuti altamente diffamatori nei confronti del presidente Hosni Mubarak e della fede islamica, non sembra più in grado di nuocere a nessuno.

Ma, evidentemente, marcire fino al 5 novembre scorso nel carcere di Burg El Arab, ad Alessandria d'Egitto, è stato giudicato dalle autorità insufficiente: Abdel Kareem, secondo le ricostruzioni della stampa indipendente e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, è stato subito riacciuffato dai servizi segreti egiziani, arrestato senza che gli fossero notificate nuove accuse (ma questa non è una novità in un Paese in cui, dal 1981, vige la legge marziale) e sbattuto in cella per altri 12 giorni.

Fino al 17 novembre, quando la famiglia ha potuto riabbracciare la brutta copia del proprio caro. In quei 10 giorni supplementari di “rieducazione”, il blogger ha ricevuto un messaggio chiaro: sei libero, ma non ti azzardare ad aprire mai più la bocca.

Ai tempi del suo diario in rete, Nabil scriveva con il nom de plume Kareem Amer e metteva alla berlina le magagne del governo, dell'Islàm conservatore, che ha preso piede nel Paese negli ultimi vent'anni, e della moschea universitaria di Al Azhar, in cui studiava giurisprudenza.

Della millenaria istituzione, punto di riferimento di tutti i sunniti nel mondo, Kareem Amer diceva: «L'università del terrorismo». E poi ancora: «I musulmani hanno rivelato il loro vero spaventoso volto, mostrando al mondo che sono brutali, barbari e inumani».

Il giudice che lo ha condannato ha riportato un altro commento del blogger sovversivo: il profeta Mohammed e i suoi adepti sono «”versatori” di sangue».
Ed è stata proprio questa sua presa di posizione anti-islamista, con toni senza precedenti, ad averlo reso vulnerabile: si fosse limitato alle critiche al regime, Kareem Amer avrebbe trovato consensi trasversali nelle file dell'opposizione, laica e religiosa. E probabilmente sarebbe rimasto in carcere qualche settimana, senza sentenza, come avvertimento. Quello che è successo ad altri suoi “colleghi” di dissidenza sul web.

Ma parlar male della religione proprio no. Ammettere che esiste un problema “integralismo islamico” non è cosa. D'altronde, quanto ascolto possono avere le voci controcorrente in un Paese in cui, nel pieno centro della capitale, un anno fa una prestigiosa gelateria cercava “commessi, solo uomini, musulmani praticanti”?

Dal novembre 2006, data del suo primo arresto, Abdel Kareem Nabil Suleiman ha ricevuto l'appoggio di numerose sigle internazionali, fra cui Reporters senza frontiere e il Comitato per la protezione dei giornalisti, che hanno considerato i suoi interventi in rete e quelli di altri blogger egiziani una forma di giornalismo a tutti gli effetti, vissuto sul campo, ad alto contenuto informativo proprio perché gratuito.

Come quelli di Wael Abbas (misrdigital.blogspirit.com), Nawara Negm (tahyyes.blogspot.com), Alaa Abd El Fatah e sua moglie Manal (www.manalaa.net), Rehab Bassam (www.rehabbassam.com), Yasser Thabet (yasser-best.blogspot.com), Zeinobia (egyptianchronicles.blogspot.com), o gli “aggregatori” Omraneya (www.omraneya.net), Baheyya (baheyya.blogspot.com), The Egyptian blog (theegyptblog.blogspot.com).

Gli argomenti di cui tratta la comunità, “fiorita” insieme a una stagione di rinnovato attivismo politico nel biennio 2004-2005, sono i più vari e intrecciati fra loro (arte, cultura, società, politica, religione), ma è ovvio che sul web abbiano trovato sfogo naturale tutti coloro le cui opinioni sono censurate nella vita quotidiana. A scuola, all'università, sul lavoro, in moschea, in famiglia.

Per non parlare di quelli nati in occasioni specifiche: per esempio, per lo sciopero degli operai del cotonificio di Mahalla El Kubra, il più grande di tutto il Medio Oriente, asserragliati dentro lo stabilimento circondato dall'esercito e in contatto con il mondo solo grazie al web.

In poco più di cinque anni i blogger hanno denunciato e documentato casi di corruzione, tortura, discriminazione sessuale, violenza settaria come mai prima. Hanno suscitato dibattiti infuocati nell'opinione pubblica per poi scomparire nella rete, talvolta individuati dai servizi segreti e più spesso no.

Ora, a dieci giorni dalle elezioni per il rinnovo dell'Assemblea popolare, la Camera bassa del Parlamento egiziano, mentre gli Stati Uniti premono sul Cairo affinché accetti la presenza di osservatori internazionali per controllare la trasparenza del voto, il regime guidato da Hosni Mubarak, 82 anni, lancia segnali di irrigidimento: rifiuta, attraverso i canali ufficiali e gli organi di stampa nazionali, qualsiasi ingerenza esterna nella propria politica; fa arrestare esponenti di spicco della Fratellanza musulmana, unico vero movimento di opposizione in grado di mettere in discussione il potere assoluto del Partito nazionale democratico (Ndp); ostacola raduni politici e dibattiti, o li “imbottisce” di agenti dell'intelligence in borghese.

E libera sì un blogger noto su scala internazionale (per Abdel Kareem si sono mobilitate associazioni statunitensi, inglesi, francesi, svedesi), ma terrorizzato e invecchiato di vent'anni.

La situazione, per i dissidenti, potrebbe peggiorare il prossimo anno, all'avvicinarsi delle elezioni presidenziali. Il voto 2011 potrebbe sancire il passaggio dei poteri dal presidente, che sta ultimando il quinto mandato consecutivo, e un successore: forse il figlio Gamal, forse un alto esponente dell'Ndp.
Per questo le legislative del 28 novembre rappresentano l'apertura di una stagione dagli esiti tutt'altro che certi.

giovedì 18 novembre 2010

Fumetti dissacranti

Uno spaccato di vita metropolitana, fra ingorghi di macchine e umanità, fermate del metrò sovraffollate, inquinamento, sporcizia, soli accecanti e aria rovente impastata di sabbia.

E anche fermento culturale, impegno politico, lotte intergenerazionali, corruzione endemica e nobiltà d'animo, generosa e gratuita. In bilico fra amore e odio, sul confine labile fra adorazione ipnotica e repulsione disgustata, come solo chi ha vissuto in una grande capitale africana ha sperimentato nello stesso istante.

Questo è “Metro”, fumetto egiziano pubblicato al Cairo nel 2008 in poche centinaia di copie e subito entrato in clandestinità perché censurato dalle autorità.

Perché la prima graphic novel egiziana in assoluto ha spiazzato la leadership politica, abituatasi negli ultimi anni alle contestazioni, ma attraverso strumenti tutto sommato controllabili: sporadiche e “spelacchiate” manifestazioni di attivisti politici, con il partito Al Ghad (Il Domani) di Ayman Nour e il movimento Kefaya (Basta) in prima linea ieri, e i riformisti di Mohammed El Baradei, ex numero uno dell'Agenzia delle Nazioni Unite per l'energia atomica (Aiea), impegnati oggi.

E poi qualche romanzo di risonanza internazionale “bonificato” dalla censura (“Il palazzo Yacoubian”, di Alaa El Aswani) e testate giornalistiche indipendenti funzionali a garantire una facciata pluralistica al regime trentennale di Hosni Mubarak.

Ma i disegni no, nessuno aveva ancora pensato di trasformare in fumetti la realtà quotidiana di un Paese di 80 milioni di abitanti, di cui la metà circa semi-analfabeta. E per di più utilizzando il dialetto, cioé la lingua parlata dalla gente, ironica e dissacrante, disillusa e fatalista. Questo deve avere spiazzato il (quasi) partito unico Nazionale democratico, già alle prese con inafferrabili blogger.

Ora le tavole dal tratto asciutto, che poco concede ai barocchismi, del giovane disegnatore Magdy El Shafie, di formazione farmacista, raggiungeranno il pubblico italiano grazie a un'edizione curata da Il Sirente, per la traduzione di Ernesto Pagano, in uscita a fine novembre.

«Si tratta di una scommessa, per sapere se in Italia avrà un riscontro di pubblico bisognerà aspettare. Ma non ho dubbi sul valore del fumetto», ha spiegato a Lettera43.it il traduttore Ernesto Pagano, alle spalle l'esperienza, sempre per Il Sirente, con il bestseller “Taxi” di Khaled Al Khamissi (raccolta di dialoghi autentici e paradossali fra l'autore e i taxisti del Cairo).

Si è pensato anche a rendere il dialetto egiziano con quello siciliano, per tradurre la vivacità di una lingua colorita. Poi, la scelta finale dell'italiano corrente.
«I personaggi sono tipizzati con decisione», come Shehad, il protagonista, giovane studente universitario brillante e frustrato perché difficilmente potrà realizzare le proprie ambizioni in una realtà immobile come quella del Paese arabo.

E poi una carrellata di “marionette” tormentate, fra cui giornalisti, lustrascarpe, portinai, “scugnizzi” dei quartieri popolari, immigrati nella capitale dal Saïd, il profondo Sud.

Tutti «in gabbia, metafora della prigionia sociale e culturale» in cui hanno coscienza di vivere soprattutto i più giovani, ha commentato Pagano, convinto che “Metro” possa avere un'audience fra coloro «che vogliono scoprire un Egitto diverso, attuale, lontano da Sharm El Sheikh», in ebollizione costante.

I segnali, nel mondo editoriale italiano e, di riflesso, fra il pubblico, ci sono tutti: mentre fioriscono i corsi di lingua araba universitari ed extra universitari, non mancano gli esperimenti di collane letterarie dedicate ai nuovi fenomeni emergenti della letteratura araba. Talvolta “pescati” fra le file degli autori più trasgressivi, senza peli sulla lingua. Oppure, perché no, commerciali.

Per immagini e contenuti, ritenuti troppo spinti, autore ed editore, Mohammed Sharqawi, sono stati processati e condannati alla distruzione di tutte le copie del volume. Quelle ancora nelle librerie. Per le altre, rien ne va plus.

http://www.lettera43.it/articolo/2747/la-graphic-novel-censurata-in-egitto.htm

lunedì 15 novembre 2010

Hajj, fra sacro e profano

Ci siamo, anche quest'anno i luoghi santi dell'Islàm sono stati presi d'assalto da centinaia di migliaia di fedeli musulmani provenienti da tutto il mondo. Per la maggior parte di loro riuscire ad assolvere a uno dei Pilastri della fede, il pellegrinaggio maggiore, l'Hajj, è tutt'altro che scontato visto che lo stesso profeta Mohammed, prevedendone gli ostacoli, aveva precisato che l'obbligo era da ritenersi valido a meno di gravi impedimenti economici o di salute.

Ma come qualsiasi manifestazione umana ogni anno i giorni di meditazione rituale in Arabia Saudita portano con sé polemiche e discussioni: agli occhi di Allah i pellegrini saranno anche tutti uguali, ma il loro modo di affrontare l'esperienza nella loro terra santa non è affatto identico.

È il boom di alberghi di lusso intorno ai luoghi di preghiera che non cessa di accendere grandi dispute, e la stampa araba non fa che dare fiato al sentimento anti-saudita dilagante nella Umma mondiale, la comunità musulmana: come dire, in mondo più o meno chiaro, “non siete degni di ospitare i luoghi in cui Mohammed è vissuto”.

Ed ecco fiorire gli esempi di pellegrini a sette stelle, quelli che spendono anche 12 mila euro per il loro soggiorno spirituale e mal sopportano di mescolarsi agli altri per svariate ore, senza che nessuno riconosca il loro status. Gli hotel svettano intorno alla Grande moschea, nel cui cortile i fedeli si muovo in cerchio intorno alla Kaaba, e, nei sogni delle autorità, presto ne sorgeranno altri più belli.

E la moschea stessa sarà ampliata per accogliere più pellegrini: non era questo l'obiettivo di Mohammed stesso? Far sì che tutti possano recarsi alla Mecca liberamente? Oppure il business ha preso la mano agli amministratori locali?
Effettivamente le cifre potrebbero dare alla testa a chiunque, benché pio e rispettoso del volere di Allah. Si calcola che il giro d'affari che interesserà Mecca e Medina nei prossimi 10 anni sarà pari a 120 miliardi di dollari. Nella sola Mecca saranno investiti 20 miliardi di dollari in progetti di sviluppo fra infrastrutture e accoglienza (un metro quadro costa 13 mila dollari alla Mecca, ndr).

Ma nello stesso regno saudita non tutti sono contenti: la prospettiva che i pellegrini possano arrivare anche a quattro milioni quest'anno e che i locali non siano mai interpellati prima dell'avvio di nuovi lavori non va giù a intellettuali e “laici” (laici rispetto alle gerarchie religiose, ndr).
La critica non trova spazio nell'arena politica, visto che non esistono elezioni parlamentari in Arabia Saudita.

Fra le voci più agguerrite vi è quella di Raja Alem, novellista, autrice di “Tawq Al Hamam”, “Il collare delle colombe”, nemica giurata di corruzione, affarismo, distruzione dei luoghi storici e di valore artistico. Mentre l'editorialista saudita Mahmoud Sabbagh si è più volte schierato contro i paradossi del nuovo corso consumistico: ma come, l'Hajj dovrebbe essere un'esperienza di profonda vicinanza con Dio all'insegna dell'umiltà eppure c'è chi ne trascorre una parte nuotando in piscina all'ultimo piano di un albergo che fa ombra alla Kaaba? E c'è chi come Irfan Al Alawi, teologo islamico con sede a Londra, non ha esitato a prendere l'esempio cristiano per rafforzare le proprie critiche: «Il Vaticano non permetterebbe mai lavori del genere all'interno della propria area sacra».

Lungi dal riguardare solo un miliardo e mezzo di musulmani, la “battaglia” in corso sotto il sole saudita rappresenta la summa delle contraddizioni umane: alla Mecca si scontrano ogni giorno materialismo estremo e desiderio di spiritualità.

http://www.lettera43.it/articolo/2646/islam-pellegrini-a-5-stelle.htm

mercoledì 10 novembre 2010

L'Egitto sperimenta le quote rosa

Rivoluzione in vista all'Assemblea popolare egiziana, la Camera bassa del Parlamento, il cui rinnovo è previsto per il 28 novembre, quando avrà inizio il lungo processo elettorale. Un sistema di “quote rose” permetterà a un blocco di 64 deputate su 508 deputati di sedere nell'emiciclo, dopo aver convinto gli elettori anche in quei governatorati storicamente conservatori.

Come ad Asiut, nel cuore dell'Egitto rurale, dove Mona Al Qurashi, membro del politburo di Al Wafd, la Delegazione, partito liberale nazionalista all'opposizione, e candidata alle prossime elezioni: «Finora Asiut è sempre stata rappresentata solo da uomini, si trattava di un seggio ereditato di generazione in generazione da alcune famiglie, adesso le cose cambieranno».

Ora Mona dovrà competere contro altre donne, un migliaio, per uno dei 64 posti “dedicati” alle deputate, ma i suoi problemi sono altri, difficilmente sradicabili: «Uno degli ostacoli che sto incontrando è che non sono velata, tutte le donne ad Asiut lo sono. Comunque, cristiani e intellettuali apprezzano il mio coraggio e questo mi dà energia».

Mona non è un'outsider nella sua famiglia: il padre, Al Qurashi Pasha, è stato uno dei fondatori del distretto di Asiut e chissà che proprio questo precedente illustre non la aiuti «a essere accettata dagli elettori».

Ma c'è anche chi vorrebbe competere alla pari senza bisogno di fare parte di una riserva protetta, come Manal Abul Hassan, che a Nasr city, alla periferia del Cairo, cercherà di sfidare il ministro del Petrolio Sameh Fahmy.

Per il momento, la commissione incaricata di vagliare le candidature non ha ancora resa nota la lista definitiva degli idonei a presentarsi.

Per Manal, esponente della Fratellanza musulmana (ma dovrà candidarsi come indipendente, perché la confraternita non è legale in Egitto), ormai «le donne partecipano a qualsiasi aspetto della vita sociale e non ci sono discriminazioni fra uomini e donne».

Un punto di vista che spiazza gli osservatori della scena politica egiziana, abituati a constatare, forse anche troppo, la penalizzazione delle donne man mano che nel Paese prende piede l'islamizzazione della società.

Eppure, sono proprio le donne militanti nelle associazioni islamiste a combattere in prima linea per i loro diritti, ma senza sbandierarlo. Mettendo piuttosto in primo piano l'impegno per i giovani, la scuola, lo sviluppo economico.

Le donne del Partito nazionale democratico (Ndp) di Hosni Mubarak, invece, per quanto numerose e presenti in modo capillare su tutto il territorio, hanno per ora optato per toni poco battaglieri, forse da candidate “blindate” e sicure di arrivare in Parlamento senza difficoltà.

A Sharqiya, per esempio, sono ben 131 le donne dell'Ndp decise a competere: per loro, la gara è tutta interna, perché sono consapevoli di avere la strada spianata per l'Assemblea popolare rispetto alle esponenti delle opposizioni, candidate zoppe già dal principio.

La messa a punto di una quota obbligatoria per le signore della politica non sarebbe stata possibile senza l'intervento del Consiglio nazionale per le donne, che ha lanciato una campagna di comunicazione a tappeto in tutto il Paese, al ritmo di uno slogan semplice ma acuto: “Compagne nella vita, compagne in Parlamento”.

Parte dell'iniziativa ha previsto una “formazione” sul campo anche delle elettrici, perché talvolta sono proprio loro le più restie a eleggere altre donne: per mancanza fiducia, poca stima, preconcetti più radicati che negli uomini.

Un paradosso che però ben spiega perché le donne egiziane, pur essendo in maggioranza rispetto ai loro compagni su 80 milioni di cittadini, facciano fatica a difendere i propri diritti. Secondo il quotidiano filo-governativo Al Ahram, solo il 41% degli iscritti al voto di fine novembre sono donne.

La nuova legge “rosa”, approvata in giugno, ha provocato aspri dibattiti: c'è chi, infatti, ritiene sia controproducente, destinata a ghettizzare ancora di più le egiziane. Altri invece sostengono che sia l'unico modo per garantire la presenza femminile e addirittura “obbligare” le donne a impegnarsi in politica in tutti i governatorati.

Ma solo il tempo dirà se l'esperimento darà gli effetti desiderati dalla normativa: per due legislature le signore saranno “accompagnate” nel loro ingresso in Parlamento, poi dovranno camminare da sole a testa alta.

http://www.lettera43.it/articolo/2330/legitto-sperimenta-le-quote-rosa.htm

mercoledì 3 novembre 2010

Al Asiri, dieci anni a caccia del "botto"

Della sua precedente esistenza, prima che il fuoco sacro della fede lo bruciasse, si sa poco. La cerchia familiare lo descrive come un giovane come tanti altri: la passione per la musica, un giro di amici, lo sport. Poco interesse per la religione.

Eppure Ibrahim Hassan Al Asiri, 28 anni, saudita residente in Yemen da tre anni, è uno dei più pericolosi coordinatori della rete terroristica Al Qa’ida, esperto di esplosivi e veleni secondo i servizi di intelligence americani, che lo tengono d’occhio da anni. Sarebbe lui all’origine di numerosi tentativi di attentato dell’ultimo anno.

Il mistero aleggia ancora su questo giovane, “perso di vista” nella prima fase della latitanza, quando la sua “vocazione terroristica” si è andata definendo.
Intervistata dal quotidiano algerino Al Watan, agli inizi del 2009 la madre descriveva così lui e suo fratello: «Ibrahim e suo fratello Abdullah erano come tutti gli adolescenti, poco religiosi».

E neanche i loro amici lo erano. Poi, fede e nuove frequentazioni sembrano andare di pari passi, senza che si capisca che cosa è venuto prima. Forse il trauma della morte del fratello Ali, in un incidente di auto nel 2000, ha contribuito a determinare la svolta. Ed ecco comparire in casa video di mujaheddin (militanti del Jihad) in Afghanistan, mentre i due ragazzi sono sempre più distanti e freddi con i genitori e le sorelle.

Ibrahim non è molto prudente, si fa notare al confine con l’Iraq nel 2003, mentre tenta di entrare nel Paese per unirsi ai guerriglieri islamisti contro le truppe americane. L’esperienza nelle carceri saudite, nove mesi, lo segna per sempre e lo rafforza nelle sue convinzioni.

La famiglia intanto si è trasferita da Riyad alla Mecca. Nel 2007, Ibrahim e Abdullah decidono di andarsene e trasferirsi a Medina, lasciando il padre, ex militare, nell’incertezza sulla loro sorte. Solo anni dopo i genitori vedranno le loro foto sui media locali e capiranno che, quando i due li chiamavano «dall’estero», stavano imparando a confezionare bombe sofisticate e mescolare veleni.
Al servizio della cellula di Al Qa’ida più “promettente” dell’intero Medio Oriente, Al Qa’ida nella penisola araba, conosciuta come Aqpa e nascosta come un cancro nel cuore dello Yemen.

Ibrahim ora è in testa alla lista delle 85 persone più pericolose per le autorità saudite, un’ascesa “trionfale” che lo ha reso uno dei ricercati in Yemen e nel mondo.
Di lui, artificiere sopraffino, si comincia a capire che ha un ruolo di coordinamento, che non corre rischi inutili, forse convinto di essere destinato a grandi imprese: il fratello Abdullah è già morto, lo ha mandato lui a morire in un attentato-suicida nell’agosto del 2009, all’età di 23 anni. Il bersaglio, il numero uno dei servizi segreti sauditi Mohammed Ben Nayef Ben Abdel Aziz, sfugge, ma per Abdullah, imbottito di esplosivi, non c’è scampo.

Il sacrificio del fratello deve aver fatto salire le quotazioni di Ibrahim in seno all’organizzazione: Aqpa lo sceglie per partecipare all’attentato sul volo Amsterdam-Detroit del 25 dicembre 2009. L’esplosivo che portava addosso il nigeriano 23enne Umar Abdul Mutallab, recava la sua firma. Ma anche quel tentativo non è andato in porto.

Verosimilmente ora il giovane Al Asiri (nome di battaglia Abu Saleh), arso dal desiderio di dimostrare capacità e coraggio, deve averne abbastanza di aspettare di fare il botto. Letteralmente. Di lui, temono inquirenti e servizi americani, si tornerà presto a parlare. Così come del religioso americano-yemenita Anwar Al Awlaki, colui che ha fornito ai fratelli Al Asiri e alle nuove leve del terrorismo islamista un supporto religioso.

http://www.lettera43.it/articolo/1934/al-asiri-10-anni-a-caccia-del-botto.htm