venerdì 10 dicembre 2010

Ai jihadisti piace patinato

Si chiama Inspire magazine e si rivolge ai fedeli musulmani anglofoni scontenti, quelli che non hanno ancora individuato un punto di riferimento adeguato nella galassia mediatica: la nuova testata, a cadenza periodica variabile sul web, è patinata, pettegola, esteticamente curata. Ma soprattutto, veicola contenuti “originali”: foto, approfondimenti e interviste dedicati al mondo del... Jihad islamico.

Ecco perché c'è chi parla già del Vanity fair di Al Qa'ida. Fin dal primo numero, Inspire ha cercato di fare colpo con titoli “esplosivi” come “Fabbrica una bomba nella cucina di tua madre”, firmato da un giornalista specializzato qualificatosi come AQ Chef (il capo oppure il cuoco di Al Qa'ida?).

La rete terroristica fondata dall'ingegnere di origini yemenite Osama Bin Laden ha sfruttato le potenzialità di internet, dei social network e della piattaforma YouTube fin dall'inizio delle proprie attività, sviluppando anche “cellule editoriali” ad hoc.

Quella che si occupa della realizzazione di Inspire ha base nello Yemen e dimostra un fiuto per la propaganda e le esigenze del mercato fuori dal comune: “Che cosa aspettarsi dal Jihad”, editoriale scritto in un american english giovane e contemporaneo, testimonia attenzione per quei giovani musulmani indecisi, sulla soglia del terrorismo militante, che necessitano di una strizzata d'occhio per fare il salto decisivo.

Si potrebbe pensare alla trovata di qualche burlone, ma secondo gli specialisti dell'Fbi e di alcuni esperti di think tank (Georgetown university, Site intelligence group, Potomac institute) la testata è davvero frutto di Al Qa'ida nella penisola araba, Apac. Lo dimostrerebbero la retorica estremista anti-occidentale, l'immaginario sanguinario, il culto della morte e del sacrificio, la conoscenza di un'epica del Jihad presente e passata.

Oltre a firme eccellenti come Anwar Awlaki, imam radicale cresciuto negli Stati Uniti e ritenuto responsabile della formazione di alcuni giovani jihadisti, come l'anglo-nigeriano Umar Farouk Abdul Mutallab, 24 anni, aspirante martire sul volo per Detroit del Natale 2009.

Il terzo numero, edito a fine novembre, è stato ritenuto dalla Cia il più allarmante, tutto focalizzato sugli aerei cargo individuati a Dubai e Londra con a bordo pacchi esplosivi di provenienza yemenita. Un'edizione speciale con istruzioni ai lettori su come imbottire altri velivoli cargo oppure civili, non tanto, o meglio non solo, per causare la morte di passeggeri occidentali, ma soprattutto per costringere i governi bersaglio a spendere somme ingenti in misure di sicurezza.

Significativamente, questa operazione è stata denominata dal magazine Emorragia. Per chi vorrà cimentarsi nell'impresa, l'equipaggiamento consiste in: due cellulari Nokia, ciascuno del valore di 150 dollari, due stampanti Hp per una spesa di 600 dollari (ci sarà un accordo di marketing con i due brand?), oltre a costi di spedizione dei pacchi e varie per la logistica. Per un totale di 4200 dollari.

Il servizio di Inspire è corredato dalle foto del volume che era contenuto nei pacchi rinvenuti, il romanzo di Charles Dickens “Grandi speranze”.
Gli osservatori sono divisi sull'effettiva pericolosità di questo tentativo di reclutamento via magazine, ma su di un aspetto sono concordi: se Al Qa'ida ha sempre puntato su azioni ad alto impatto, Apac invece preferisce un profilo più basso e meno dispendioso.

Inspire è stato preceduto sulla rete dal magazine I difensori della verità, sempre in inglese ma con titolo e impaginazione meno accattivanti, realizzato dalla Rete islamica di Mosul.

giovedì 25 novembre 2010

Pensar male va sempre bene?

Mentre la vicenda irlandese e il destino del Portogallo monopolizzano l'attenzione dell'Unione europea (nell'attesa che l'occhio lungo di Bruxelles si sposti dalle immondizie napoletane ai conti del Bel Paese), l'Ue rischia di perdere di vista un partner privilegiato nel mondo islamico, in predicato di diventare un Paese membro da 50 anni: la Turchia.
O forse no. Non tutti gli osservatori interpretano le scelte strategiche di Ankara in materia di politica estera allo stesso modo.

In un editoriale apparso sul Corriere della Sera il 23 novembre, “Nato, Iran e La Turchia che ci sta lasciando”, di Giovanni Sartori, si legge: «La Turchia, ormai, sembra guardare all’Islam: il premier turco Erdogan, al vertice Nato di Lisbona (il 19 e il 20 novembre 2010, ndr), è riuscito a ottenere che l’Iran venisse escluso dagli Stati che minacciano l’Occidente, per l’appunto protetto dai militari dell’Alleanza atlantica. Così abbiamo perso la Turchia e al tempo stesso rinforzato la mano del nostro più pericoloso nemico, l’Iran degli ayatollah. Davvero un bell’insuccesso».

Ma davvero la mossa turca risulta allo stesso tempo sorprendente e definitiva? Il commento di Valeria Talbot, ricercatrice esperta di partenariato euro-mediterraneo e Turchia dell’Istituto per gli studi di politica internazionale: «Vorrei fare alcune precisazioni, perché credo che questa prima lettura sia fuorviante. Il documento di cui parla Sartori riguarda lo scudo missilistico della Nato, che non sarà indirizzato a proteggere l’Europa da specifici Paesi, ma da generiche minacce. Peraltro nel testo non sono indicati i nomi di altre nazioni», quindi, se ne deduce, riportare solo il nominativo dell’Iran sarebbe stato inopportuno.

Dal punto di vista dell’analista dell’Ispi, in realtà, «la scelta turca in direzione mediorientale non è alternativa alla via europea, ma complementare». A maggior ragione se Bruxelles e Washington sapranno valutare questa «proiezione mediorientale» nelle giuste proporzioni.

Che Ankara sia delusa dalle difficoltà negoziali con l’Unione europea e dall’atteggiamento ostile di Francia e Germania non è una novità: questioni cruciali come Cipro e il rispetto dei diritti della minoranza curda costituiscono un freno all’avanzamento del dossier turco nel consesso europeo.

Tuttavia non è questa impasse a spingere il governo di Recep Tayyip Erdogan a rafforzare le relazioni con Tehran: «Questo è frutto di pragmatismo, di interessi energetici (l’Iran rappresenta il principale fornitore di gas di Ankara, ndr) e commerciali di rilievo (circa 10 miliardi di dollari annui di interscambio con aspettative di crescita fino a 30 mld)».

E l’attenzione turca alla questione iraniana in sede Nato riflette il tentativo di evitare una rottura fra l’Alleanza atlantica e gli ayatollah, spingendo per lo sviluppo in chiave civile del programma nucleare iraniano.
«Ma fin dagli anni ’80, e via via sempre di più nel decennio successivo, i turchi hanno rinvigorito le relazioni con il Medio Oriente. Basti pensare al flusso intenso di esportazioni verso l’Iraq che ha resistito anche durante la crisi» con il regime di Saddam Hussein.

Quanto a «sostenere che, per gli interessi occidentali sarebbe auspicabile che le strategie turche si articolassero in armonia con gli obiettivi americani ed europei, questo è un altro genere di discorso» ha commentato la ricercatrice.

Infine, la questione religiosa: l’esecutivo dell’Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo, di cui Erdogan è leader) e tutte le sue mosse sono perennemente sotto la lente d’ingrandimento.

Perché? La risposta è ovvia, anche pericolosa perché a rischio semplificazione: «Per la collocazione religiosa che noi stessi diamo alla Turchia, il modo in cui vogliamo dipingere il Paese», dando per scontato che ormai abbia girato le spalle alla laicità per un’islamizzazione senza ritorno.

Una semplificazione che potrebbe rivelarsi pericolosa e impedire di valutare lo scenario turco nella sua specificità, con un percorso diverso da quello di altri Paesi a maggioranza islamica della regione. E con differenti ambizioni politiche, come quella di ponte fra Occidente e Medio Oriente.

http://www.lettera43.it/articolo/3231/se-la-turchia-si-rivolge-verso-est.htm

venerdì 19 novembre 2010

Blogger egiziani nel mirino

Quando un regime trentennale dall'apparenza monolitica ha paura di un ventenne “internettiano” e dei suoi compagni “smanettoni”, forse è ora di dubitare sulla sua stabilità e rimanere in ascolto per percepirne gli scricchiolii.

Soprattutto perché il giovane in questione, Abdel Kareem Nabil Suleiman, 26 anni, unico blogger egiziano ad aver scontato una pena detentiva (di quattro anni) per i suoi scritti sul web, ritenuti altamente diffamatori nei confronti del presidente Hosni Mubarak e della fede islamica, non sembra più in grado di nuocere a nessuno.

Ma, evidentemente, marcire fino al 5 novembre scorso nel carcere di Burg El Arab, ad Alessandria d'Egitto, è stato giudicato dalle autorità insufficiente: Abdel Kareem, secondo le ricostruzioni della stampa indipendente e delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, è stato subito riacciuffato dai servizi segreti egiziani, arrestato senza che gli fossero notificate nuove accuse (ma questa non è una novità in un Paese in cui, dal 1981, vige la legge marziale) e sbattuto in cella per altri 12 giorni.

Fino al 17 novembre, quando la famiglia ha potuto riabbracciare la brutta copia del proprio caro. In quei 10 giorni supplementari di “rieducazione”, il blogger ha ricevuto un messaggio chiaro: sei libero, ma non ti azzardare ad aprire mai più la bocca.

Ai tempi del suo diario in rete, Nabil scriveva con il nom de plume Kareem Amer e metteva alla berlina le magagne del governo, dell'Islàm conservatore, che ha preso piede nel Paese negli ultimi vent'anni, e della moschea universitaria di Al Azhar, in cui studiava giurisprudenza.

Della millenaria istituzione, punto di riferimento di tutti i sunniti nel mondo, Kareem Amer diceva: «L'università del terrorismo». E poi ancora: «I musulmani hanno rivelato il loro vero spaventoso volto, mostrando al mondo che sono brutali, barbari e inumani».

Il giudice che lo ha condannato ha riportato un altro commento del blogger sovversivo: il profeta Mohammed e i suoi adepti sono «”versatori” di sangue».
Ed è stata proprio questa sua presa di posizione anti-islamista, con toni senza precedenti, ad averlo reso vulnerabile: si fosse limitato alle critiche al regime, Kareem Amer avrebbe trovato consensi trasversali nelle file dell'opposizione, laica e religiosa. E probabilmente sarebbe rimasto in carcere qualche settimana, senza sentenza, come avvertimento. Quello che è successo ad altri suoi “colleghi” di dissidenza sul web.

Ma parlar male della religione proprio no. Ammettere che esiste un problema “integralismo islamico” non è cosa. D'altronde, quanto ascolto possono avere le voci controcorrente in un Paese in cui, nel pieno centro della capitale, un anno fa una prestigiosa gelateria cercava “commessi, solo uomini, musulmani praticanti”?

Dal novembre 2006, data del suo primo arresto, Abdel Kareem Nabil Suleiman ha ricevuto l'appoggio di numerose sigle internazionali, fra cui Reporters senza frontiere e il Comitato per la protezione dei giornalisti, che hanno considerato i suoi interventi in rete e quelli di altri blogger egiziani una forma di giornalismo a tutti gli effetti, vissuto sul campo, ad alto contenuto informativo proprio perché gratuito.

Come quelli di Wael Abbas (misrdigital.blogspirit.com), Nawara Negm (tahyyes.blogspot.com), Alaa Abd El Fatah e sua moglie Manal (www.manalaa.net), Rehab Bassam (www.rehabbassam.com), Yasser Thabet (yasser-best.blogspot.com), Zeinobia (egyptianchronicles.blogspot.com), o gli “aggregatori” Omraneya (www.omraneya.net), Baheyya (baheyya.blogspot.com), The Egyptian blog (theegyptblog.blogspot.com).

Gli argomenti di cui tratta la comunità, “fiorita” insieme a una stagione di rinnovato attivismo politico nel biennio 2004-2005, sono i più vari e intrecciati fra loro (arte, cultura, società, politica, religione), ma è ovvio che sul web abbiano trovato sfogo naturale tutti coloro le cui opinioni sono censurate nella vita quotidiana. A scuola, all'università, sul lavoro, in moschea, in famiglia.

Per non parlare di quelli nati in occasioni specifiche: per esempio, per lo sciopero degli operai del cotonificio di Mahalla El Kubra, il più grande di tutto il Medio Oriente, asserragliati dentro lo stabilimento circondato dall'esercito e in contatto con il mondo solo grazie al web.

In poco più di cinque anni i blogger hanno denunciato e documentato casi di corruzione, tortura, discriminazione sessuale, violenza settaria come mai prima. Hanno suscitato dibattiti infuocati nell'opinione pubblica per poi scomparire nella rete, talvolta individuati dai servizi segreti e più spesso no.

Ora, a dieci giorni dalle elezioni per il rinnovo dell'Assemblea popolare, la Camera bassa del Parlamento egiziano, mentre gli Stati Uniti premono sul Cairo affinché accetti la presenza di osservatori internazionali per controllare la trasparenza del voto, il regime guidato da Hosni Mubarak, 82 anni, lancia segnali di irrigidimento: rifiuta, attraverso i canali ufficiali e gli organi di stampa nazionali, qualsiasi ingerenza esterna nella propria politica; fa arrestare esponenti di spicco della Fratellanza musulmana, unico vero movimento di opposizione in grado di mettere in discussione il potere assoluto del Partito nazionale democratico (Ndp); ostacola raduni politici e dibattiti, o li “imbottisce” di agenti dell'intelligence in borghese.

E libera sì un blogger noto su scala internazionale (per Abdel Kareem si sono mobilitate associazioni statunitensi, inglesi, francesi, svedesi), ma terrorizzato e invecchiato di vent'anni.

La situazione, per i dissidenti, potrebbe peggiorare il prossimo anno, all'avvicinarsi delle elezioni presidenziali. Il voto 2011 potrebbe sancire il passaggio dei poteri dal presidente, che sta ultimando il quinto mandato consecutivo, e un successore: forse il figlio Gamal, forse un alto esponente dell'Ndp.
Per questo le legislative del 28 novembre rappresentano l'apertura di una stagione dagli esiti tutt'altro che certi.

giovedì 18 novembre 2010

Fumetti dissacranti

Uno spaccato di vita metropolitana, fra ingorghi di macchine e umanità, fermate del metrò sovraffollate, inquinamento, sporcizia, soli accecanti e aria rovente impastata di sabbia.

E anche fermento culturale, impegno politico, lotte intergenerazionali, corruzione endemica e nobiltà d'animo, generosa e gratuita. In bilico fra amore e odio, sul confine labile fra adorazione ipnotica e repulsione disgustata, come solo chi ha vissuto in una grande capitale africana ha sperimentato nello stesso istante.

Questo è “Metro”, fumetto egiziano pubblicato al Cairo nel 2008 in poche centinaia di copie e subito entrato in clandestinità perché censurato dalle autorità.

Perché la prima graphic novel egiziana in assoluto ha spiazzato la leadership politica, abituatasi negli ultimi anni alle contestazioni, ma attraverso strumenti tutto sommato controllabili: sporadiche e “spelacchiate” manifestazioni di attivisti politici, con il partito Al Ghad (Il Domani) di Ayman Nour e il movimento Kefaya (Basta) in prima linea ieri, e i riformisti di Mohammed El Baradei, ex numero uno dell'Agenzia delle Nazioni Unite per l'energia atomica (Aiea), impegnati oggi.

E poi qualche romanzo di risonanza internazionale “bonificato” dalla censura (“Il palazzo Yacoubian”, di Alaa El Aswani) e testate giornalistiche indipendenti funzionali a garantire una facciata pluralistica al regime trentennale di Hosni Mubarak.

Ma i disegni no, nessuno aveva ancora pensato di trasformare in fumetti la realtà quotidiana di un Paese di 80 milioni di abitanti, di cui la metà circa semi-analfabeta. E per di più utilizzando il dialetto, cioé la lingua parlata dalla gente, ironica e dissacrante, disillusa e fatalista. Questo deve avere spiazzato il (quasi) partito unico Nazionale democratico, già alle prese con inafferrabili blogger.

Ora le tavole dal tratto asciutto, che poco concede ai barocchismi, del giovane disegnatore Magdy El Shafie, di formazione farmacista, raggiungeranno il pubblico italiano grazie a un'edizione curata da Il Sirente, per la traduzione di Ernesto Pagano, in uscita a fine novembre.

«Si tratta di una scommessa, per sapere se in Italia avrà un riscontro di pubblico bisognerà aspettare. Ma non ho dubbi sul valore del fumetto», ha spiegato a Lettera43.it il traduttore Ernesto Pagano, alle spalle l'esperienza, sempre per Il Sirente, con il bestseller “Taxi” di Khaled Al Khamissi (raccolta di dialoghi autentici e paradossali fra l'autore e i taxisti del Cairo).

Si è pensato anche a rendere il dialetto egiziano con quello siciliano, per tradurre la vivacità di una lingua colorita. Poi, la scelta finale dell'italiano corrente.
«I personaggi sono tipizzati con decisione», come Shehad, il protagonista, giovane studente universitario brillante e frustrato perché difficilmente potrà realizzare le proprie ambizioni in una realtà immobile come quella del Paese arabo.

E poi una carrellata di “marionette” tormentate, fra cui giornalisti, lustrascarpe, portinai, “scugnizzi” dei quartieri popolari, immigrati nella capitale dal Saïd, il profondo Sud.

Tutti «in gabbia, metafora della prigionia sociale e culturale» in cui hanno coscienza di vivere soprattutto i più giovani, ha commentato Pagano, convinto che “Metro” possa avere un'audience fra coloro «che vogliono scoprire un Egitto diverso, attuale, lontano da Sharm El Sheikh», in ebollizione costante.

I segnali, nel mondo editoriale italiano e, di riflesso, fra il pubblico, ci sono tutti: mentre fioriscono i corsi di lingua araba universitari ed extra universitari, non mancano gli esperimenti di collane letterarie dedicate ai nuovi fenomeni emergenti della letteratura araba. Talvolta “pescati” fra le file degli autori più trasgressivi, senza peli sulla lingua. Oppure, perché no, commerciali.

Per immagini e contenuti, ritenuti troppo spinti, autore ed editore, Mohammed Sharqawi, sono stati processati e condannati alla distruzione di tutte le copie del volume. Quelle ancora nelle librerie. Per le altre, rien ne va plus.

http://www.lettera43.it/articolo/2747/la-graphic-novel-censurata-in-egitto.htm

lunedì 15 novembre 2010

Hajj, fra sacro e profano

Ci siamo, anche quest'anno i luoghi santi dell'Islàm sono stati presi d'assalto da centinaia di migliaia di fedeli musulmani provenienti da tutto il mondo. Per la maggior parte di loro riuscire ad assolvere a uno dei Pilastri della fede, il pellegrinaggio maggiore, l'Hajj, è tutt'altro che scontato visto che lo stesso profeta Mohammed, prevedendone gli ostacoli, aveva precisato che l'obbligo era da ritenersi valido a meno di gravi impedimenti economici o di salute.

Ma come qualsiasi manifestazione umana ogni anno i giorni di meditazione rituale in Arabia Saudita portano con sé polemiche e discussioni: agli occhi di Allah i pellegrini saranno anche tutti uguali, ma il loro modo di affrontare l'esperienza nella loro terra santa non è affatto identico.

È il boom di alberghi di lusso intorno ai luoghi di preghiera che non cessa di accendere grandi dispute, e la stampa araba non fa che dare fiato al sentimento anti-saudita dilagante nella Umma mondiale, la comunità musulmana: come dire, in mondo più o meno chiaro, “non siete degni di ospitare i luoghi in cui Mohammed è vissuto”.

Ed ecco fiorire gli esempi di pellegrini a sette stelle, quelli che spendono anche 12 mila euro per il loro soggiorno spirituale e mal sopportano di mescolarsi agli altri per svariate ore, senza che nessuno riconosca il loro status. Gli hotel svettano intorno alla Grande moschea, nel cui cortile i fedeli si muovo in cerchio intorno alla Kaaba, e, nei sogni delle autorità, presto ne sorgeranno altri più belli.

E la moschea stessa sarà ampliata per accogliere più pellegrini: non era questo l'obiettivo di Mohammed stesso? Far sì che tutti possano recarsi alla Mecca liberamente? Oppure il business ha preso la mano agli amministratori locali?
Effettivamente le cifre potrebbero dare alla testa a chiunque, benché pio e rispettoso del volere di Allah. Si calcola che il giro d'affari che interesserà Mecca e Medina nei prossimi 10 anni sarà pari a 120 miliardi di dollari. Nella sola Mecca saranno investiti 20 miliardi di dollari in progetti di sviluppo fra infrastrutture e accoglienza (un metro quadro costa 13 mila dollari alla Mecca, ndr).

Ma nello stesso regno saudita non tutti sono contenti: la prospettiva che i pellegrini possano arrivare anche a quattro milioni quest'anno e che i locali non siano mai interpellati prima dell'avvio di nuovi lavori non va giù a intellettuali e “laici” (laici rispetto alle gerarchie religiose, ndr).
La critica non trova spazio nell'arena politica, visto che non esistono elezioni parlamentari in Arabia Saudita.

Fra le voci più agguerrite vi è quella di Raja Alem, novellista, autrice di “Tawq Al Hamam”, “Il collare delle colombe”, nemica giurata di corruzione, affarismo, distruzione dei luoghi storici e di valore artistico. Mentre l'editorialista saudita Mahmoud Sabbagh si è più volte schierato contro i paradossi del nuovo corso consumistico: ma come, l'Hajj dovrebbe essere un'esperienza di profonda vicinanza con Dio all'insegna dell'umiltà eppure c'è chi ne trascorre una parte nuotando in piscina all'ultimo piano di un albergo che fa ombra alla Kaaba? E c'è chi come Irfan Al Alawi, teologo islamico con sede a Londra, non ha esitato a prendere l'esempio cristiano per rafforzare le proprie critiche: «Il Vaticano non permetterebbe mai lavori del genere all'interno della propria area sacra».

Lungi dal riguardare solo un miliardo e mezzo di musulmani, la “battaglia” in corso sotto il sole saudita rappresenta la summa delle contraddizioni umane: alla Mecca si scontrano ogni giorno materialismo estremo e desiderio di spiritualità.

http://www.lettera43.it/articolo/2646/islam-pellegrini-a-5-stelle.htm

mercoledì 10 novembre 2010

L'Egitto sperimenta le quote rosa

Rivoluzione in vista all'Assemblea popolare egiziana, la Camera bassa del Parlamento, il cui rinnovo è previsto per il 28 novembre, quando avrà inizio il lungo processo elettorale. Un sistema di “quote rose” permetterà a un blocco di 64 deputate su 508 deputati di sedere nell'emiciclo, dopo aver convinto gli elettori anche in quei governatorati storicamente conservatori.

Come ad Asiut, nel cuore dell'Egitto rurale, dove Mona Al Qurashi, membro del politburo di Al Wafd, la Delegazione, partito liberale nazionalista all'opposizione, e candidata alle prossime elezioni: «Finora Asiut è sempre stata rappresentata solo da uomini, si trattava di un seggio ereditato di generazione in generazione da alcune famiglie, adesso le cose cambieranno».

Ora Mona dovrà competere contro altre donne, un migliaio, per uno dei 64 posti “dedicati” alle deputate, ma i suoi problemi sono altri, difficilmente sradicabili: «Uno degli ostacoli che sto incontrando è che non sono velata, tutte le donne ad Asiut lo sono. Comunque, cristiani e intellettuali apprezzano il mio coraggio e questo mi dà energia».

Mona non è un'outsider nella sua famiglia: il padre, Al Qurashi Pasha, è stato uno dei fondatori del distretto di Asiut e chissà che proprio questo precedente illustre non la aiuti «a essere accettata dagli elettori».

Ma c'è anche chi vorrebbe competere alla pari senza bisogno di fare parte di una riserva protetta, come Manal Abul Hassan, che a Nasr city, alla periferia del Cairo, cercherà di sfidare il ministro del Petrolio Sameh Fahmy.

Per il momento, la commissione incaricata di vagliare le candidature non ha ancora resa nota la lista definitiva degli idonei a presentarsi.

Per Manal, esponente della Fratellanza musulmana (ma dovrà candidarsi come indipendente, perché la confraternita non è legale in Egitto), ormai «le donne partecipano a qualsiasi aspetto della vita sociale e non ci sono discriminazioni fra uomini e donne».

Un punto di vista che spiazza gli osservatori della scena politica egiziana, abituati a constatare, forse anche troppo, la penalizzazione delle donne man mano che nel Paese prende piede l'islamizzazione della società.

Eppure, sono proprio le donne militanti nelle associazioni islamiste a combattere in prima linea per i loro diritti, ma senza sbandierarlo. Mettendo piuttosto in primo piano l'impegno per i giovani, la scuola, lo sviluppo economico.

Le donne del Partito nazionale democratico (Ndp) di Hosni Mubarak, invece, per quanto numerose e presenti in modo capillare su tutto il territorio, hanno per ora optato per toni poco battaglieri, forse da candidate “blindate” e sicure di arrivare in Parlamento senza difficoltà.

A Sharqiya, per esempio, sono ben 131 le donne dell'Ndp decise a competere: per loro, la gara è tutta interna, perché sono consapevoli di avere la strada spianata per l'Assemblea popolare rispetto alle esponenti delle opposizioni, candidate zoppe già dal principio.

La messa a punto di una quota obbligatoria per le signore della politica non sarebbe stata possibile senza l'intervento del Consiglio nazionale per le donne, che ha lanciato una campagna di comunicazione a tappeto in tutto il Paese, al ritmo di uno slogan semplice ma acuto: “Compagne nella vita, compagne in Parlamento”.

Parte dell'iniziativa ha previsto una “formazione” sul campo anche delle elettrici, perché talvolta sono proprio loro le più restie a eleggere altre donne: per mancanza fiducia, poca stima, preconcetti più radicati che negli uomini.

Un paradosso che però ben spiega perché le donne egiziane, pur essendo in maggioranza rispetto ai loro compagni su 80 milioni di cittadini, facciano fatica a difendere i propri diritti. Secondo il quotidiano filo-governativo Al Ahram, solo il 41% degli iscritti al voto di fine novembre sono donne.

La nuova legge “rosa”, approvata in giugno, ha provocato aspri dibattiti: c'è chi, infatti, ritiene sia controproducente, destinata a ghettizzare ancora di più le egiziane. Altri invece sostengono che sia l'unico modo per garantire la presenza femminile e addirittura “obbligare” le donne a impegnarsi in politica in tutti i governatorati.

Ma solo il tempo dirà se l'esperimento darà gli effetti desiderati dalla normativa: per due legislature le signore saranno “accompagnate” nel loro ingresso in Parlamento, poi dovranno camminare da sole a testa alta.

http://www.lettera43.it/articolo/2330/legitto-sperimenta-le-quote-rosa.htm

mercoledì 3 novembre 2010

Al Asiri, dieci anni a caccia del "botto"

Della sua precedente esistenza, prima che il fuoco sacro della fede lo bruciasse, si sa poco. La cerchia familiare lo descrive come un giovane come tanti altri: la passione per la musica, un giro di amici, lo sport. Poco interesse per la religione.

Eppure Ibrahim Hassan Al Asiri, 28 anni, saudita residente in Yemen da tre anni, è uno dei più pericolosi coordinatori della rete terroristica Al Qa’ida, esperto di esplosivi e veleni secondo i servizi di intelligence americani, che lo tengono d’occhio da anni. Sarebbe lui all’origine di numerosi tentativi di attentato dell’ultimo anno.

Il mistero aleggia ancora su questo giovane, “perso di vista” nella prima fase della latitanza, quando la sua “vocazione terroristica” si è andata definendo.
Intervistata dal quotidiano algerino Al Watan, agli inizi del 2009 la madre descriveva così lui e suo fratello: «Ibrahim e suo fratello Abdullah erano come tutti gli adolescenti, poco religiosi».

E neanche i loro amici lo erano. Poi, fede e nuove frequentazioni sembrano andare di pari passi, senza che si capisca che cosa è venuto prima. Forse il trauma della morte del fratello Ali, in un incidente di auto nel 2000, ha contribuito a determinare la svolta. Ed ecco comparire in casa video di mujaheddin (militanti del Jihad) in Afghanistan, mentre i due ragazzi sono sempre più distanti e freddi con i genitori e le sorelle.

Ibrahim non è molto prudente, si fa notare al confine con l’Iraq nel 2003, mentre tenta di entrare nel Paese per unirsi ai guerriglieri islamisti contro le truppe americane. L’esperienza nelle carceri saudite, nove mesi, lo segna per sempre e lo rafforza nelle sue convinzioni.

La famiglia intanto si è trasferita da Riyad alla Mecca. Nel 2007, Ibrahim e Abdullah decidono di andarsene e trasferirsi a Medina, lasciando il padre, ex militare, nell’incertezza sulla loro sorte. Solo anni dopo i genitori vedranno le loro foto sui media locali e capiranno che, quando i due li chiamavano «dall’estero», stavano imparando a confezionare bombe sofisticate e mescolare veleni.
Al servizio della cellula di Al Qa’ida più “promettente” dell’intero Medio Oriente, Al Qa’ida nella penisola araba, conosciuta come Aqpa e nascosta come un cancro nel cuore dello Yemen.

Ibrahim ora è in testa alla lista delle 85 persone più pericolose per le autorità saudite, un’ascesa “trionfale” che lo ha reso uno dei ricercati in Yemen e nel mondo.
Di lui, artificiere sopraffino, si comincia a capire che ha un ruolo di coordinamento, che non corre rischi inutili, forse convinto di essere destinato a grandi imprese: il fratello Abdullah è già morto, lo ha mandato lui a morire in un attentato-suicida nell’agosto del 2009, all’età di 23 anni. Il bersaglio, il numero uno dei servizi segreti sauditi Mohammed Ben Nayef Ben Abdel Aziz, sfugge, ma per Abdullah, imbottito di esplosivi, non c’è scampo.

Il sacrificio del fratello deve aver fatto salire le quotazioni di Ibrahim in seno all’organizzazione: Aqpa lo sceglie per partecipare all’attentato sul volo Amsterdam-Detroit del 25 dicembre 2009. L’esplosivo che portava addosso il nigeriano 23enne Umar Abdul Mutallab, recava la sua firma. Ma anche quel tentativo non è andato in porto.

Verosimilmente ora il giovane Al Asiri (nome di battaglia Abu Saleh), arso dal desiderio di dimostrare capacità e coraggio, deve averne abbastanza di aspettare di fare il botto. Letteralmente. Di lui, temono inquirenti e servizi americani, si tornerà presto a parlare. Così come del religioso americano-yemenita Anwar Al Awlaki, colui che ha fornito ai fratelli Al Asiri e alle nuove leve del terrorismo islamista un supporto religioso.

http://www.lettera43.it/articolo/1934/al-asiri-10-anni-a-caccia-del-botto.htm

mercoledì 27 ottobre 2010

Sderot, pagine che fanno paura

Per avere un libro di storia il più possibile completo, pluralista, frutto di un coro eterogeneo di voci si può e si deve lottare. La pensano così gli studenti di un istituto superiore di Sderot, centro urbano israeliano di piccole dimensioni e scarso appeal estetico, ma indubbia fama, data la sua infausta posizione geografica.

La cittadina, infatti, si trova nell’area occidentale del deserto del Negev, a un km dalla Striscia di Gaza. E per questa sua ubicazione è da anni, alternativamente, bersaglio privilegiato di missili palestinesi più o meno artigianali sparati dalla Striscia oppure porta d’accesso alla lingua di terra controllata da Hamas per le rappresaglie israeliane.

Sderot è una tappa obbligata per la stampa internazionale che desidera capire come vivono gli israeliani di frontiera, quelli che hanno pochi secondi per ripararsi dal momento in cui suona un allarme missilistico. Allo stesso tempo, la cittadina fondata negli anni ’50 costituisce un punto di osservazione “ideale” per seguire a debita distanza i raid aerei israeliani nella Striscia, come accaduto durante l’operazione Piombo fuso (dicembre 2008-gennaio 2009).

Ma d’ora in poi a Sderot si potrà associare anche un’immagine diversa: quella di una popolazione che, attraverso i suoi esponenti più giovani, vuole voltare pagina. Ecco perché.

I ragazzi dell’istituto Sha’ar Hanegev, privati di un testo di storia che presentava l’una accanto all’altra la ricostruzione della storia moderna del Medio Oriente per mano di un docente israeliano e di uno palestinese, non intendono rassegnarsi e chiedono di parlare con il dirigente del ministero dell’Educazione che ne ha disposto il ritiro.

La notizia è stata riportata il 25 ottobre dal sito del quotidiano Haaretz. Il libro incriminato, “Imparare il racconto storico di ciascuno”, è già stato utilizzato nel liceo di Sderot l’anno scorso per volontà del preside Aharon Rothstein, ma, sostengono i dirigenti a Tel Aviv, senza opportuna autorizzazione. Il divieto è stato definito dagli studenti «irritante e deludente», ora vogliono sapere di che cosa hanno paura al ministero dell’Educazione e tuonano: «Questo atteggiamento diminuisce la nostra intelligenza ed è un po’ insultante dire che crederemo a qualsiasi cosa leggiamo. Si potrebbe dire lo stesso del “Mein Kampf” di Hitler letto nelle ore di storia. Ma è ovvio, non funziona in questo modo».

Il volume reca la firma di Dan Bar-On, dell’università del Negev Ben Gurion, e di Sami Adwan, dell’università di Betlemme. Fra una versione e l’altra dei medesimi fatti storici, al centro, uno spazio bianco permette agli studenti di apporre i propri commenti, da discutere poi in classe.

Secondo la ricostruzione di Haaretz, il ministero ha “drizzato le orecchie” a seguito di un primo articolo scritto sul progetto interculturale, coordinato da un ente svedese. Dopo un colloquio con il preside, il testo è stato vietato senza appello.

Nel frattempo, al preside Rothstein è stato «proibito parlare con la stampa», ha spiegato a Lettera43 la sua segreteria, chiarendo che l’imposizione viene direttamente «dal ministero dell’Educazione».

http://www.lettera43.it/articolo/1543/pagine-che-fanno-paura.htm

giovedì 21 ottobre 2010

Pomi d'oro e hashish

Un autunno caldo così, con punte massime di 40 gradi e tempeste di sabbia impalpabile che tinge tutto di giallo, non se lo ricorda nessuno al Cairo, neanche gli anziani, intervistati dalle tv locali che seguono le sorprendenti evoluzioni del meteo nazionale. E se normalmente l’apprensione dei media supera la reale portata dei fenomeni, “gonfiandoli” a dismisura, questo non è il caso.

Perché dopo sei mesi di temperature torride (anche 50 gradi nel mese di giugno nella capitale) è naturale che la maggior parte degli egiziani metta in relazione due fenomeni: il cambiamento climatico e l’inflazione galoppante che ha colpito le verdure trasformandole in un bene di lusso.

Soprattutto i pomodori, interessati da un aumento anche del 300%, sono diventati gioielli preziosi, passati da cinque a 15 lire egiziane al kg (un euro equivale a 7,95 lire egiziane). Le melanzane volano a quota 12 lire e i fagioli a 20, tutti alimenti essenziali nella dieta di un cittadino medio, ma sempre più inarrivabili: basti sapere che lo stipendio di un impiegato statale è di poche centinaia di lire al mese. Nel frattempo, la carne rossa è un miraggio, visto che costa 70 lire al kg.

«A causa dei cambiamenti climatici, quest’anno la produzione di pomodori e altri vegetali è stata esigua» ha spiegato a Lettera43 Cristina Cocchieri, ricercatrice, specializzata in Economia dei Paesi mediterranei, da tre anni al Cairo. «L’argomento occupa le prime pagine dei giornali, ma sono in pochi a valutare il rischio di una possibile crisi alimentare, per esempio considerando anche il brusco taglio dell’export di grano dalla Russia».

Niente verdure e poco riso o grano ed ecco che la dieta di tutti i giorni non passa più per la pentola: la gente comune si nutre di formaggio, qualche uovo e tè zuccherato. Inutile scomodare le padelle se non si ha neanche una cipolla da far rosolare.

Non è la prima volta, negli ultimi anni, che l’Egitto si trova ad affrontare lo spettro dell’insufficienza alimentare e del boom dei prezzi delle derrate: nel 2008, la crisi del pane causata dalla mancanza di grano ha fatto 12 vittime, cittadini morti durante le proteste popolari o nella ressa di fronte alle botteghe dei fornai.
Un tempo l'Egitto era fra i maggiori produttori ed esportatori di granaglie, ma l’aumento demografico ha capovolto la situazione: al ritmo di 1 milione di nascite all’anno, il Paese nordafricano ha superato gli 80 milioni di abitanti e procede al trotto verso nuovi traguardi.

Gli scienziati attribuiscono il rincaro delle verdure, e il peggioramento della loro qualità, a tre fattori: temperature al di sopra della media, la presenza di una mosca bianca devastante per le colture e la comparsa di un virus che attacca in particolar modo le piante di pomodori.

Il coincidere del nuovo allarme alimentare con uno dei passaggi politici più delicati della storia egiziana sta facendo drizzare le orecchie a numerosi osservatori, non solo a quelli appassionati di dietrologia. L’emergenza alimentare nel mondo c’è: finora ne hanno pagato le conseguenze peggiori Mauritania, Mozambico, Nigeria e Zimbabwe, in cui scarseggiano riso e grano.

Ma in molti si chiedono se le autorità egiziane, pilotando i prezzi delle derrate alimentari ad hoc, stiano cercando di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dagli imminenti appuntamenti elettorali: il rinnovo dell’assemblea popolare, la Camera bassa del Parlamento egiziano, il 29 novembre, e le elezioni presidenziali in primavera. Con un possibile cambio ai vertici della repubblica dopo 30 anni di regime Mubarak.

“Ashara Al Masa” (Le dieci di sera), programma televisivo trasmesso dalla tv pubblica, ha affrontato l’argomento intervistando massaie inferocite e venditori tremebondi al mercato cairota di Bab El Louq. E la dietrologia ha trionfato: tutta colpa della corruzione che infetta la società, delle elezioni che si avvicinano e di Israele (non si sbaglia mai a citarlo, nel mondo arabo) che specula.

La crisi dei pomodori, così è stata “bollata” dai giornali, segue di alcuni mesi un’altra impasse che ha duramente colpito la società egiziana, quella dell'hashish. E non c’è ironia alcuna in tale affermazione. Illegale, ma parte della cultura popolare, l'hashish è una risorsa imprescindibile per milioni di cittadini, uomini e donne, nei grandi centri urbani come nelle aree agricole e nel deserto.

“Insieme contro la crisi dell’hashish in Egitto” è il nome del gruppo nato su Facebook nel mese di aprile, a seguito del rincaro delle agognate piantine. Scarso il successo dell'iniziativa, che ha raccolto una trentina di membri per ovvi motivi.
Rastrellato dai servizi di sicurezza, accumulato dagli spacciatori per farne lievitare il prezzo oppure rimasto fermo all’origine, là dove viene coltivato nelle montagne del Sinai per difficoltà di trasporto, l’hashish ha fatto parlare di sé per settimane, senza ipocrisie, anche in prima serata. Amr Adib, anchorman egiziano di "Al Qahira Al Youm" (Il Cairo oggi), ha dedicato una puntata della sua trasmissione alle lamentele per la scomparsa dell’hashish, lasciando invece alle autorità una campagna anti-droghe.

Intanto, mentre gli spettatori si concentrano su verdure e droghe leggere, la maggioranza smonta pezzo per pezzo le opposizioni politiche, religiose e laiche, e si prepara al passaggio dello scettro dal presidente Hosni Mubarak a un nuovo “faraone”. Una strategia già utilizzata nel 2005, prima delle urne, quando la polizia si è accanita su cittadini e turisti omosessuali, arrestati al Cairo a feste private o in locali pubblici.

Ecco perché la comunità gay del Cairo è sul chi va là: «Alla vigilia della festa organizzata da un personaggio abbastanza in vista, qualche settimana fa, si è sparsa la voce che i servizi segreti avrebbero fatto irruzione» ha raccontato a Lettera43 un invitato al prestigioso party, «Visto il periodo, l’allarme è stato preso sul serio e la festa annullata all’ultimo momento».

http://www.lettera43.it/articolo/1292/pomi-doro-e-hashish.htm

martedì 19 ottobre 2010

Farah, la prima hostess di Dubai

A una prima lettura non sembrerebbe una notizia degna di nota, anzi non sembrerebbe proprio una notizia il fatto che la ventisettenne di Dubai Farah Saeed, al termine di un corso di formazione per hostess della durata di otto settimane, sia entrata a far parte dello staff della compagnia aerea Etihad, insegna emiratense nata nel 2003.

E invece Farah, che ha effettuato il suo primo volo nella tratta fra Londra e Istanbul la seconda settimana di ottobre, ha ritrovato il proprio volto mediorientale, truccato a regolare d’arte in occasione del debutto, su svariati organi di stampa del Golfo e ora sta facendo il giro del mondo via web.
Perché prima di lei, fra tre mila hostess e steward della compagnia di bandiera non c’era mai stato un cittadino degli Emirati: eppure le nazionalità rappresentate sono un centinaio.

Scontato l’entusiasmo della pioniera, che si sente investita di un ruolo quasi diplomatico: «Ho intenzione di condividere cultura e ospitalità degli Emirati con più persone possibile e in più luoghi possibili al mondo». Un progetto sostenuto dalla famiglia: «Chi mi circonda mi ha incoraggiato a diventare la prima cittadina degli Emirati a imbarcarsi in questa carriera».

La nuova arrivata, hanno precisato i vertici di Etihad (letteralmente l’Unione, in riferimento all’Unione degli Emirati arabi, ndr), non si sentirà sola perché gli emiratensi abbondano, invece, fra piloti professionisti e allievi. Parola del direttore generale della compagnia, James Hogan, palesemente non oriundo di Dubai.

E a questo punto si riapre il dibattito sul tessuto sociale di alcuni emirati della penisola arabica, non necessariamente i sette dell’Unione, ma anche Kuwait, Qatar, Bahrein, abitati da poche centinaia di migliaia di cittadini autoctoni e milioni di emigrati per motivi di lavoro.

Qualche numero. Dei circa tre milioni e 100 mila abitanti del Kuwait, sono originari del posto appena 960 mila. In Bahrein vivono 672 mila persone, di cui solo il 64% è indigeno. In Qatar, su un milione e mezzo di abitanti, tre quarti hanno un permesso di lavoro temporaneo.

Negli Emirati arabi la sproporzione è ancora più eclatante: su otto milioni di abitanti, non più del 20% è nato in loco. Tutti gli altri sono “expat”, espatriati.
Generalizzando, nei sultanati arabi l’immigrazione è in prevalenza di etnia indiana, pakistana, cingalese, filippina, iraniana per quanto riguarda edilizia e ristorazione. Quella occidentale rappresenta una minoranza e occupa posti di responsabilità nelle sedi mediorientali di grandi network internazionali.

L’hostess Farah Saeed è il simbolo di una strategia, la cosiddetta “emiratizzazione” del personale, inaugurata da Abu Dhabi dieci anni fa e finora rivelatasi poco fruttuosa. A più riprese il governo ha tentato di stimolare l’assunzione di personale locale a colpi di decreti, ma soprattutto nel settore privato non c’è stato verso: per citare una normativa disattesa, nella primavera del 2009 ai privati operanti negli Emirati è stato imposto di assumere, nei comparti amministrativo e risorse umane, personale locale.

Un tentativo congiunto dei ministeri degli Affari esteri e del Lavoro di procedere per settori professionali che però è naufragato dopo poco, anche a causa della crisi congiunturale negli Emirati: come dire, nella seconda metà del 2009 numerose aziende internazionali con base a Dubai hanno chiuso o ridotto le proprie sedi. Meglio non innervosire quelle rimaste.

Ai cittadini emiratensi, dunque, non è rimasto altro strumento per competere con gli stranieri che studiare. Le possibilità non mancano: il 22,7% del bilancio federale 2010, circa 9,9 miliardi di dirham (1,91 miliardi di euro), è stato investito in educazione, con borse di studio per gli studenti arabi, costruzione di atenei e scuole di specializzazione ad Abu Dhabi, Dubai e Sharjah, gemellaggi con poli universitari di livello internazionale.

Solo un dettaglio da segnalare: il reclutamento di personale docente straniero per dare autorevolezza alle giovani università. Ancora.

http://www.lettera43.it/articolo-breve/1187/farah-prima-hostess-di-dubai.htm

lunedì 18 ottobre 2010

Pellegrini con stile alla Mecca

Nel tentativo di diversificare la propria economia, alimentata quasi esclusivamente dai petroldollari, l’Arabia saudita ha intenzione di potenziare l’industria del turismo religioso contendendo agli emirati vicini e alle mete internazionali i visitatori a cinque stelle.

Lo dimostrano le misure approvate dalle autorità saudite nel corso del 2010, finalizzate a migliorare la qualità dei servizi offerti ogni anno a milioni di pellegrini musulmani in visita alla Mecca e a Medina (secondo le autorità saudite, due milioni e mezzo nel 2009, ndr) e le azioni promozionali lanciate per catturare nuove fette di mercato. Un mare magnum di un miliardo e mezzo di fedeli sparsi in tutto il globo.

A gestire la complicata macchina organizzativa dei pellegrinaggi è il ministero saudita dell’Hajj, che fornisce «servizi integrati ai pellegrini della casa inviolabile di Allah», si legge sul sito web del dicastero. Al ministero fa capo il comitato centrale saudita per l’Hajj e la Omraa, le due tipologie di pellegrinaggio compiute dai fedeli musulmani, che concede ai tour operator, locali e stranieri, la licenza dopo attenta valutazione della candidatura.

Fra le condizioni che le agenzie turistiche abilitate devono rispettare vi è l’obbligo di versare alle autorità una caparra compresa fra 20 mila e 100 mila euro, che viene restituita solo se, al termine del soggiorno, nessun viaggiatore si è lamentato del trattamento. Questo dopo anni di sistemazioni precarie, proteste e incidenti, anche molto gravi, che hanno spinto Riyadh a istituire un severo sistema di multe e controlli per gli operatori turistici che non rispettano i contratti sottoscritti con i pellegrini.

Nei Paesi a maggioranza musulmana da cui partono centinaia di migliaia di fedeli ogni anno, esistono ministeri degli Affari religiosi con uffici appositi in costante coordinamento con i colleghi sauditi.

Per l’Italia, la quota annuale di “viaggiatori della fede” concessa dal regno saudita è di 3 mila persone all’anno (pari all’1% della popolazione musulmana, ndr), coordinate da una rete di agenzie munite di speciale permesso: sono nove quelle che detengono la licenza per l’Hajj, il pellegrinaggio maggiore, e due per l’Omraa, il minore.

«I pellegrini che partono dall’Italia lo fanno quasi esclusivamente per l’Hajj, che per i fedeli è una farida, cioè un obbligo», ha spiegato a Lettera43 Hossam Zahran, titolare dell’agenzia Palma Aquarius tours di Milano.

La quota di pellegrini gestita da Aquarius è di 94 unità all’anno (di cui due o tre italiani convertiti), né più né meno, stabilita in coordinamento con le altre insegne: «Lavoriamo tutti insieme su base nazionale, molti pellegrini si rivolgono a noi su segnalazione dei centri culturali islamici» ha specificato Zahran.

Per il pellegrinaggio maggiore, secondo il calendario lunare di quest’anno dal 14 al 17 novembre, gli operatori sono soliti iniziare i preparativi anche tre o quattro mesi prima: «È importante per riuscire ad assicurarsi buoni posti, negli alberghi e nelle tende vicine all’area sacra della Kabah, con prezzi giusti» ha aggiunto l’agente di viaggio.

Ecco un pacchetto-tipo: il pellegrino in partenza dall’Italia «paga meno di quanto pagherebbe dall’Egitto o da un altro Paese arabo. Il costo da qui è in media di 3 mila euro fra viaggio aereo, soggiorno in albergo, posto in tenda con aria condizionata e materasso (durante i riti all’interno delle zone sacre, ndr), pasti, bibite, spostamenti durante tutto il soggiorno», di una decina di giorni. Escluse le mance ad autisti, fattorini e portieri.

Quanto ai turisti non musulmani interessati a scoprire l’Arabia saudita, le speranze sono poche: per loro i luoghi santi dell’Islàm non sono accessibili. Poi, secondo Zahran, «c’è ben poco da vedere e non ci sono strutture adeguate per l’accoglienza». Gli ostacoli burocratici fanno passare la voglia: nel 2009 sono stati concessi solo 20 mila visti non religiosi, per motivi di lavoro o per visita a familiari in loco.

Chi l’ha detto che un pellegrino non vuole anche divertirsi. Nuovi “pacchetti” che abbinano il pellegrinaggio ai soggiorni-vacanza sono ora reclamizzati in Egitto, Emirati arabi, Malesia e Marocco.
Media e alta borghesia sono i target privilegiati dell’operazione. Grossi portafogli e scrupoli morali su dove portare la prole in vacanza? Basta licenziose capitali occidentali, largo alle località “sante”.

E il settore alberghiero fiorisce: le insegne Movenpick, Le Meridien, Intercontinental, Rotana, Ramada offrono sistemazioni a cinque stelle nel cuore della Mecca. Per hotel più economici, invece, è necessario allontanarsi anche di centinaia di km, in pieno deserto.

http://www.lettera43.it/articolo/1053/pellegrini-con-stile.htm

giovedì 14 ottobre 2010

La fiction della discordia

E alla fine, dopo settimane di polemiche e dibattiti infuocati sui principali mezzi di comunicazione egiziani, la fiction Al Gamaa, in arabo “il gruppo”, dedicata alla storia della Fratellanza musulmana e messa in onda dalla tv pubblica egiziana durante il mese di Ramadan (quest’anno ad agosto) con alti indici di gradimento, non sarà ritrasmessa fino a dopo le elezioni parlamentari, previste per la fine del mese di novembre.

Il serial potrebbe «influenzare gli elettori» ha sostenuto Osama Al Sheikh, direttore dell’Unione della radio e televisione egiziana, Ertu, che si è affrettato, come da consuetudine nella repubblica nordafricana guidata con pugno di ferro dal presidente Hosni Mubarak, a smentire qualsiasi pressione da parte dei servizi segreti, i famigerati mukhabarat.

In realtà, si è difeso Osama Al Sheikh, il contratto di Al Gamaa prevedeva tre mesi di scarto fra una messa in onda e quella successiva. Dunque, niente broadcasting prima del 29 novembre, data di inizio del processo elettorale a più tornate per il rinnovo dell’Assemblea popolare, la Camera bassa del Parlamento.

Le insicurezze del regime

La vicenda ha messo in evidenza, in un periodo delicato per la scena politica egiziana, le insicurezze insospettabili di un regime fra i più inamovibili nel mondo arabo e nel continente africano in genere.

Insospettabili perché, in quasi 30 anni di presidenza Mubarak e dominio incontrastato del Partito nazionale democratico, Ndp, nessuna minoranza è mai stata in grado di impensierire seriamente la leadership egiziana.

Nessuna tranne la Fratellanza, ufficialmente bandita dalla vita politica, ma nella pratica presente in Parlamento con 88 deputati eletti nel 2005 come indipendenti. Il cosiddetto “blocco degli 88” rappresenta circa un quinto dei deputati, complessivamente 444 eletti e 10 di nomina presidenziale.

E chissà quale risultato potrebbero raggiungere i Fratelli se la maggioranza lasciasse loro uno spiraglio maggiore.

Un movimento diffuso in modo capillare

Gli Ikhwan, i Fratelli appunto, nati in Egitto per iniziativa dell’insegnante Hassan Al Banna nel 1928 e costretti alla clandestinità dal 1954 perché considerati responsabili del tentato assassinio del presidente Gamal Abdel Nasser, costituiscono l’unico vero partito di opposizione in Egitto.

Diffuso in modo capillare sul territorio e nella società con rappresentanti nei principali sindacati e ordini professionali, nelle associazioni studentesche, nei centri culturali e ricreativi, il movimento è ormai un fenomeno che ha poco di sommerso. Per motivi di sicurezza, non esistono liste di affiliazione, ma i membri, soprattutto i più giovani, non esitano a rivelare la propria fedeltà alla guida suprema Mohammed Badie.

E Badie stesso ha dichiarato il 7 ottobre l’intenzione di partecipare al voto parlamentare puntando alla conquista del 30% dell’assemblea popolare.

Finora la leadership egiziana ha dato l’impressione di saper controllare e reprimere l’ascesa della Fratellanza su più livelli: con il congelamento delle risorse finanziarie, con la messa al bando di qualsiasi partito di ispirazione religiosa, con l’incarcerazione degli esponenti di spicco del movimento.

Tutto inutile, hanno commentato alcuni osservatori della scena politica egiziana, se è vero che una soap opera storico-romanzata costata 50 milioni di lire egiziane (un euro equivale a circa sette lire egiziane, ndr) è percepita come una pericolosa operazione di maquillage della Fratellanza.

Bene o male, l’importante è che se ne parli

Al Gamaa sembra aver scontentato un po’ tutti. Non è piaciuta alla maggioranza politica e alle opposizioni laiche perché ritenuta troppo indulgente con gli Ikhwan. In seno alla Fratellanza è stata criticata perché, al contrario, troppo filo-governativa. Ha indignato Saif Al Islàm Al Banna, figlio del fondatore del movimento, per il modo in cui è stato rappresentato il padre ed è passato alle vie legali contro gli sceneggiatori.
Per non parlare di alcuni teologi, scandalizzati per una sura del Corano riportata erroneamente.

Ma questo “polpettone” egiziano, che presto farà il giro dei network arabi, ha regalato al maggiore movimento islamista al mondo una pubblicità insperata, a spese dello Stato.

http://www.lettera43.it/articolo-breve/859/la-fiction-della-discordia.htm

martedì 4 maggio 2010

Per Mubarak niente discorso del Primo maggio

Quest'anno, niente tradizionale discorso alla nazione in occasione del Primo maggio.

Il presidente della Repubblica egiziana Hosni Mubarak, rientrato in patria a fine marzo dopo un'operazione alla cistifellea affrontata in Germania, non é apparso in pubblico, come suo solito, in occasione della Festa dei lavoratori. Il suo staff, preoccupato per la salute e l'immagine del rais, non ha voluto che parlasse ai circa 80 milioni di concittadini neanche da seduto. Forse, devono aver pensato i consiglieri di Mubarak, piuttosto di apparire stanco e provato, meglio non comparire.

Eppure il presidente, a quanto ribadiscono i portavoce presidenziali, é tornato al lavoro e, in particolare, ieri ha ricevuto a colloquio il premier israeliano Benjamin Netanayahu a Sharm El Sheikh, dove la diplomazia egiziana ha dislocato ormai parte delle attività di politica estera. Hosni Mubarak vi risiede da fine marzo.

L'assenza dalla scena pubblica del presidente 82enne non fa che aumentare le illazioni intorno alle sue condizioni di salute e, di conseguenza, al futuro politico del paese, in vista delle elezioni presidenziali del 2011.

lunedì 12 aprile 2010

La crisi dell'hashish

'Insieme contro la crisi dell'hashish' è un nuovo gruppo nato su Facebook per far fronte ad una vera e propria emergenza sociale in Egitto, secondo alcuni frutto di un complotto: la carenza di hashish. Dove è finito? è la domanda più frequente nei caffé del paese da alcune settimane a questa parte.

Le opinioni si sprecano: si tratterebbe, secondo alcuni commentatori, di un tentativo - di dubbia efficacia - da parte delle autorità di affrontare corruzione e uso di stupefacenti in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali. Insomma, un segnale della volontà della classe politica di fare pulizia.

Francamente non se ne comprende la ragione, data la trasversalità dell'uso delle droghe leggere fra le classi sociali (e anche alle forze di polizia) egiziane. E poi, se agli egiziani si toglie pure l'hashish, che gli rimane? Potrebbe sembrare una battuta di dubbio gusto, ma senza remore ne discutono in tv, via internet e sulla stampa (indipendente) fior fiore di analisti.

Dopo quasi trent'anni di dittatura militare, in pieno boom demografico e penetrazione dell'Islam wahhabita, con una crisi economica che ha letteralmente tolto il pane di bocca a più della metà del paese, ci si interroga su come sradicare l'uso delle droghe leggere?

Ora si temono agitazioni, soprattutto ad opera dei più giovani: e se la scomparsa dell'hashish facesse esplodere il dolente popolo erede dei Faraoni?

martedì 6 aprile 2010

Cresce la candidatura di Mohammed El Baradei

Guadagna terreno e sostenitori la candidatura - benché non ancora ufficiale - di Mohammed El Baradei alle prossime elezioni presidenziali egiziane, previste per il 2011.

Il premio Nobel (2005) per la pace ed ex numero uno dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) ha dichiarato, alla fine del 2009, di essere disponibile a candidarsi alla presidenza - nelle mani di Hosni Mubarak dal 1981 - solo nel caso in cui le elezioni siano corrette e trasparenti.

Da allora, le sue visite in Egitto si sono fatte via via più frequenti e pubbliche. L'ultima nella città di Mansoura, dove centinaia di cittadini lo hanno accolto, al termine della preghiera nella locale moschea, con slogan di sostegno. Fino ad ora El Baradei si era limitato ad incontri nella capitale.

El Baradei ha fondato all'inizio dell'anno il Movimento per il cambiamento, raccogliendo intorno alla propria figura membri dell'opposizione laica e religiosa al regime di Mubarak, e semplici attivisti per la difesa dei diritti umani.

Classe 1942, il diplomatico egiziano non fa parte di nessun partito, dettaglio di non poco conto visto che, secondo gli emendamenti costituzionali apportati due anni fa, un candidato presidenziale deve far parte della leadership di un partito - legittimato da un comitato governativo - da almeno cinque anni.

Indiretti i riconoscimenti al suo ruolo politico da parte della Chiesa Copta, che lo ha invitato a partecipare alla messa pasquale, e della Fratellanza musulmana, attraverso alcuni membri presenti (e festanti) a Mansoura.

giovedì 1 aprile 2010

Ulema uniti contro il terrorismo

Una dura condanna del terrorismo e un invito accorato, rivolto ai terroristi, affinché abbandonino qualsiasi forma di violenza. E' quanto concordato, oggi nella città santa di Medina, in Arabia Saudita, da 24 studiosi islamici provenienti da 12 paesi.

Gli ulema (letteralmente, uomini di scienza, esperti di religione) hanno ribadito la loro condanna "di tutti gli atti di terrorismo, ovunque avvengano e chiunque li commetta" e hanno deplorato "la morte di innocenti" che ne deriva. Fra di loro anche 5 studiosi russi.

In un comunicato che porta evidenti tracce di quanto accaduto solodue giorni fa nella metropolitana moscovita, probabilmente per mano di terroristi ceceni, l'appello degli ulema ai "giovani musulmani" nel mondo, perché seguano "un islàm moderato e tollerante" e non aderiscano a false interpretazioni della questione del jihad.

Tra i firmatari del documento i Gran muftì di Egitto, Siria, Libano e Bosnia e il capo del Consiglio dei muftì russi. Alla conferenza partecipano anche studiosi da Europa, India e Stati Uniti. Nei giorni scorsi, nel corso di una conferenza nella città turca di Mardin, altri autorevoli studiosi islamici hanno stabilito che la cosiddetta fatwa di Mardin, emanata dal teologo Ibn Taymiyyah ai tempi dell'invasione mongola del Duecento, non può essere usata per giustificare la guerra santa, come fanno spesso le organizzazioni del terrore.

mercoledì 31 marzo 2010

Elezioni a rischio in Sudan

Come temuto da più parti, rischiano di sfociare in un fallimento le prime elezioni (presidenziali e parlamentari) da 24 anni a questa parte, previste, almeno sulla carta, per la seconda settimana di aprile (11-13).

Bocciata categoricamente la richiesta delle opposizioni di rimandarle a tempo indeterminato per garantirne correttezza e trasparenza, il presidente in carica Omar Hassan Al Bashir, leader del Partito del congresso nazionale (Ncp), accusa come suo solito nemici esterni di fomentare l’instabilità sul territorio e si dice deciso a procedere con le elezioni a tutti i costi, “in difesa dei diritti dei sudanesi”.

Al Bashir, accusato e riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità e crimini di guerra dalla Corte penale internazionale (Cpi) – ma non di genocidio - nel luglio 2008, minaccia i suoi avversari di non permettere il referendum per l’indipendenza del Sud Sudan, fissato per il gennaio del 2011. L’autonomia della vasta area meridionale (circa 8 milioni di abitanti), a maggioranza cristiano-animista, è un passo fondamentale nella realizzazione dell’Accordo di pace comprensivo (2005), ancora lungi dall’essere applicato.

Stando così le cose, la partecipazione dei cittadini alle votazioni, specialmente in zone disagiate e segnate dai combattimenti fra forze governative e ribelli come nel Darfur, è pressoché impossibile. In tali condizioni, prevedono gli osservatori internazionali, fra cui 130 inviati dall’Unione europea, sarà il partito di maggioranza, l’Ncp, a trionfare ancora una volta.

L’indipendenza del Sud Sudan e la pace in Darfur in cambio della conferma alla guida del paese? Difeso dalla Lega Araba, dall’Unione Africana e dall’Organizzazione dei paesi islamici, dietro le quinte è probabile che Omar Al Bashir sia stato spinto dagli alleati più vicini a riprendere il percorso del processo di pace chiudendo i fronti interni ed esterni. Al momento, la stabilità nazionale sembra però ancora un’utopia.

giovedì 18 marzo 2010

IslamOnline in sciopero

Continua lo sciopero dei 250 impiegati del sito di informazione IslamOnline.net. Al Cairo, dove i dipendenti sono stati minacciati di licenziamento nel caso in cui non si pieghino ai voleri dell'azienda, il tira e molla con l'amministrazione non sembra allentarsi.

Redattori, grafici, impiegati protestano per la 'virata' verso contenuti via via più conservatori imposta dagli editori, la cui base è in Qatar.

IslamOnline nasce come portale dell'informazione islamica moderata. Sulle sue pagine hanno trovato spazio tematiche quali l'omosessualità, il divorzio, l'aborto e altro ancora. Ora, però, da Doha giunge netto il tentativo di estremizzarne i contenuti, ogni giorno seguiti da oltre 120,000 persone, anche rinnovando la redazione del Cairo epurandone gli elementi meno malleabili.

Nel frattempo, il portale continua a pubblicare news, ma senza il contributo della redazione egiziana, il cui accesso al server è stato bloccato.

venerdì 5 febbraio 2010

L'Asia si sposta in Libano

Mentre ancora gli algerini si leccano le ferite per la sconfitta contro l'Egitto nella finale di calcio di Coppa Africa e gli egiziani si sentono per l'ennesima volta 'faraoni' (ma non parteciperanno ai Mondiali sudafricani) c'è una parte di mondo arabo che guarda oltre e rivolge ogni attenzione al Libano.

Sì, perché nelle prossime due settimane, da domani a Beirut, si affronteranno con grinta 12 team di pallamano, in lizza per aggiudicarsi la Coppa d'Asia e partecipare alla Coppa del Mondo del 2011, organizzata dall'Arabia Saudita. L'edizione libanese promette faville e copertura mediatica serrata, sia in Medio Oriente che in Asia.

Fra le tigri che daranno spettacolo, secondo le previsioni, sud coreani, iraniani, libanesi e sauditi. Domani il via alle danze della 14esima edizione!

lunedì 11 gennaio 2010

Natale copto insanguinato

Ero già pronta con il mio pezzo sul Natale copto, la festa cristiana che arriva inaspettata, quando i fratelli cattolici hanno già messo via il presepe. Il 7 gennaio, festività riconosciuta dallo Stato egiziano (in cui i copti rappresentano il 10% della popolazione, cioè circa 8-10 milioni di persone), i cristiani ortodossi della sponda sud del Mediterraneo festeggiano la Natività, si scambiano doni, fanno risuonare i campanili nel grande paese a maggioranza musulmana. Ma il mio articolo si è trasformato in una cronaca di sangue.

Quest'anno, nella notte fra il 6 e il 7 gennaio, un commando di tre uomini armati ha inseguito, sparando, i concittadini che uscivano dalla messa di mezzanotte. Sul sagrato della chiesa e nelle strade adiacenti, a Nagaa Hamady, piccolo villaggio del governatorato di Qena a circa 700 km da Il Cairo, sono rimaste a terra 9 vittime, fra cui un soldato musulmano sopraggiunto sul posto. Decine i feriti. I tre responsabili, musulmani, criminali noti alle forze dell'ordine, si sono poi arresi alla polizia. Gli scontri fra i due gruppi religiosi hanno messo a ferro e fuoco l'area per giorni. La versione ufficiale: i tre volevano vendicare una ragazzina musulmana, violentata da un giovane cristiano nel mese di novembre. Quella sostenuta dalla autorità copte, di solito più prudenti ma questa volta evidentemente esasperate, è che si sia trattato di un attentato a sfondo religioso.

Prima riflessione: gli amici egiziani mi raccontano di un passato non così lontano in cui cristiani e musulmani (prima degli anni '50, pure ebrei, sì sì sì) si scambiavano auguri e doni in occasione delle rispettive festività religiose. Ramadan, Eid, Natale e Pasqua condivisi. Gli egiziani erano di meno, più uniti, più ricchi, più istruiti. Non c'era spazio per intolleranza, fanatismo, pregiudizi.
Ora, la pancia vuota del Said, il sud egiziano, sorda di fame e ignoranza, è una facile preda di integralismo e violenza.

Due: lo Stato sembra perdere il controllo della sua base. Fino a due anni fa l'Egitto era un paese socialista, ma siccome mantenere tale connotazione mentre oltre la metà della popolazione ha problemi a campare, è analfabeta, vive al di sotto del livello di povertà (e un'élite ricchissima fa la spola con Parigi e Londra per istruzione e shopping) suona un po' ridicolo, la Costituzione è stata modificata. Le cose, comunque, non sembrano migliorare e il paese affonda. Forse, nel dopo Mubarak, avranno più fortuna i Fratelli musulmani nel respingere le infiltrazioni radicali, se davvero vorranno...

Tre: della dodicenne violentata due mesi fa e delle sue sofferenze ho dei dubbi che interessi qualcosa a qualcuno, ammesso che l'episodio sia vero (è preso ad alibi di scorribande anti-cristiane da mesi). Amaramente, ricordando colloqui con giovani donne dell'area di Luxor (quella lontana dai circuiti turistici), penso che nessuno vorrà sposare quella ragazzina. Che, se sarà fortunata, la sua famiglia se la terrà a casa, ma ben nascosta fra le quattro mura domestiche. Altrimenti, il suo futuro 'professionale' è già segnato...
I soliti pretesti tribali per evitare di dire le cose come stanno: nel centro e nel sud dell'Egitto, la comunità cristiana copta non ha pace. E Il Cairo sottovaluta la questione, per cecità o intenzionalmente.