giovedì 11 luglio 2013

Dal divano alla piazza


Si è cominciato a parlare di un partito del Divano (in arabo egiziano kanaba, termine derivato da canapé, ndr), nell'autunno del 2011, quando coloro che avevano fatto la rivoluzione dei 18 giorni puntarono il dito contro gli altri. 

Quelli che erano rimasti in silenzio, appunto seduti sul divano di casa, mentre i più intrepidi si facevano massacrare dagli uomini di Hosni Mubarak. Rubata agli attivisti, la parola è stata utilizzata da politologi e mezzi di comunicazione per dipingere la maggioranza dei cittadini egiziani, non necessariamente vili o indifferenti. Semplicemente troppo occupati a sopravvivere, fra famiglia, miseri doppi lavori e disservizi sociali, per scendere nelle strade. 

Ebbene, dopo un anno di strapotere islamista, anche quelli di Hizb al-Kanaba, che proprio nella Fratellanza musulmana avevano creduto per il futuro dei propri figli, hanno rotto il silenzio e abbandonato il salotto di casa. La maggioranza silenziosa, rimasta tale per oltre un anno mentre la nuova dirigenza politica faceva man bassa di tutti i posti chiave nell'amministrazione del Paese, ha evidentemente toccato il fondo. E senza bisogno di sigle politiche, richiami religiosi né road map ha già tolto la fiducia al presidente della Repubblica Mohammed Morsi. 

Alcune riflessioni, inevitabili: né i vertici né tantomeno la base dell'Egitto di oggi hanno digerito le regole del galateo democratico, che impongono una serie di passaggi obbligati e assunzioni di responsabilità. Inoltre, la petizione Tamarod (Ribellione), semplice nel linguaggio e negli obiettivi, ha avuto il tempismo che era mancato a tutte le iniziative precedenti, cosiddette marce da un milione di cittadini cui partecipavano poche centinaia di persone.

Ma soprattutto, la leadership politica islamista non ha colto il disagio logorante in cui, nell'ultimo anno e mezzo, ha vissuto la grande massa silenziosa dei concittadini: interruzioni di corrente elettrica continue (un tempo frequenti solo in estate, a causa del consumo di elettricità da parte degli impianti di condizionamento dell'aria), code ai distributori di benzina e gas (alcune finite nel sangue, con gli utenti infuriati gli uni con gli altri), aumento dei prezzi dei beni di prima necessità senza precedenti, cumuli di immondizie abbandonati per giorni, diffuso senso di insicurezza anche in aree residenziali dei centri urbani, infrastrutture in decadimento. 

E fame, tanta fame per almeno un quarto della popolazione, con meno di un dollaro al dì. Un altro quarto, invece, sopravvive con poco più di un dollaro al giorno. La Banca mondiale ha cominciato a lanciare l'allarme in marzo, preannunciando una “catastrofe economica”: in concreto, non ci sono soldi per importare grano (il 75% del fabbisogno interno arriva dall'estero) e questo vuol dire che milioni di persone faranno la coda ai forni, sotto il sole di mezza estate, inutilmente. 

Senza soldi, va da sé, l'Egitto non può importare niente di niente. Le riserve sono crollate da 36 miliardi di dollari a 13 nel biennio. Il presidente Morsi, tuttavia, resiste da oltre un anno al Fondo monetario internazionale, pronto a concedere 4,8 miliardi di dollari di prestito a certe condizioni: tanto, pare abbia detto ai fedelissimi, “il mondo non permetterà che un grande Paese come l'Egitto faccia fallimento”.

(Federica Zoja per Avvenire, 4 luglio 2013)

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