L'esito
della battaglia in corso fra Forze armate egiziane, invocate da una
parte di popolazione, e Fratellanza musulmana è cruciale non solo
per il grande Paese nordafricano, ma per l'intero quadrante
geografico.
Lo sa bene Mohammed Badie, guida suprema degli Ikhwan
al-Muslimun al-masriun (Fratelli musulmani egiziani) dal 2009, che ha
già operato una precisa scelta: cresciuto negli anni della
clandestinità e della dissimulazione, vista l'alba di una nuova
repressione da parte dei generali, ha chiamato i suoi all'estrema
resistenza.
Per il momento, nessun leader della Confraternita né del
partito islamista Libertà e giustizia ha pronunciato il termine
jihad,
ma si intuisce che la tentazione è forte. In quel caso, sarà
determinante il ruolo degli altri Fratelli regionali. Badie potrebbe
cercare l'appoggio dei cugini tunisini e libici, ma a giudicare dalle
cronache ci sono grattacapi interni per tutti.
A Tunisi, la
Fratellanza è rappresentata dal partito di maggioranza Ennahda
(Rinascita): il coinvolgimento nel governo di voci antagoniste ha
ridotto la reazione di rigetto da parte dell'anima laica del Paese,
ma il tentativo di mettere a punto una carta costituzionale
islamizzata non è stato digerito dalla popolazione.
Ecco le accuse
contro Ennahda: bulimia di potere, inesperienza nell'amministrazione
e soprattutto nella gestione della crisi economica. All'inizio del
mese di giugno ha visto la luce una petizione Tamarrod anche in
Tunisia. Le principali richieste sono lo scioglimento dell'Assemblea
costituente (Anc), l'annullamento della bozza della nuova
Costituzione e la nomina di una commissione di esperti che si
occupino della Legge fondante per il Paese, tenendo conto di tutte le
componenti della società. I ribelli tunisini chiedono anche elezioni
anticipate.
“Oggi l'Egitto, domani la Tunisia. Abbasso i Fratelli
musulmani, rivoluzione fino alla vittoria”, gridavano centinaia di
manifestanti, riuniti di fronte all'ambasciata egiziana di Tunisi nei
giorni scorsi. Rachid Ghannouchi, numero uno di Ennahda, e l'ex
premier Hamadi Jabali hanno preso le distanze dall'atteggiamento
totalitario di Erdogan in Turchia e Morsi in Egitto, seppure
dicendosi preoccupati per gli interventi dell'esercito. Gli islamisti
moderati tunisini sono contestati anche dai salafiti, che spingono
per l'applicazione della sharìa, a costo di incendiare il clima
sociale.
Poi ci sono i Fratelli di Libia, con il partito Giustizia e
costruzione e altre sigle minori che vantano sei ministri
nell'attuale governo. Braccati da Muammar Gheddafi – ma coccolati
dal figlio e delfino Seif al-Islam – gli Ikhwan libici non hanno il
medesimo radicamento che in Egitto, per questo guardano alla Guida
suprema egiziana come loro riferimento. Alcuni elementi potrebbero
dare sostegno operativo ai cugini del Cairo, ma in clandestinità,
perché non godono di grandi simpatie fra la popolazione.
Da una
costola della Fratellanza egiziana proviene anche quella giordana,
accusata
di voler cacciare il casato hashemita da Amman, sebbene coinvolta
nella vita politica da 40 anni.
Ma i Fratelli che hanno più da
perdere da un effetto domino egiziano sono quelli turchi, al potere
dal 2002 con il partito Giustizia e sviluppo di Recep Tayyep Erdogan:
la spinta islamizzante sembra ormai aver saturato la società turca.
Sono Fratelli in esilio gli elementi di spicco dell'opposizione
politica al regime siriano: ospitati da Ankara, vorrebbero imitarne
la recente storia.
E ha uguale Dna anche Hamas, nato nel 1987 dalla
Fratellanza musulmana palestinese. A Gaza, Hamas è messa in
discussione da frange oltranziste. Sulla sponda della Striscia, il
richiamo del Cairo potrebbe trovare orecchie attente.
(Federica Zoja per Avvenire, 7 luglio 2013)
(Federica Zoja per Avvenire, 7 luglio 2013)
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