giovedì 11 luglio 2013

Fratelli regionali


L'esito della battaglia in corso fra Forze armate egiziane, invocate da una parte di popolazione, e Fratellanza musulmana è cruciale non solo per il grande Paese nordafricano, ma per l'intero quadrante geografico. 

Lo sa bene Mohammed Badie, guida suprema degli Ikhwan al-Muslimun al-masriun (Fratelli musulmani egiziani) dal 2009, che ha già operato una precisa scelta: cresciuto negli anni della clandestinità e della dissimulazione, vista l'alba di una nuova repressione da parte dei generali, ha chiamato i suoi all'estrema resistenza. 

Per il momento, nessun leader della Confraternita né del partito islamista Libertà e giustizia ha pronunciato il termine jihad, ma si intuisce che la tentazione è forte. In quel caso, sarà determinante il ruolo degli altri Fratelli regionali. Badie potrebbe cercare l'appoggio dei cugini tunisini e libici, ma a giudicare dalle cronache ci sono grattacapi interni per tutti. 

A Tunisi, la Fratellanza è rappresentata dal partito di maggioranza Ennahda (Rinascita): il coinvolgimento nel governo di voci antagoniste ha ridotto la reazione di rigetto da parte dell'anima laica del Paese, ma il tentativo di mettere a punto una carta costituzionale islamizzata non è stato digerito dalla popolazione. 

Ecco le accuse contro Ennahda: bulimia di potere, inesperienza nell'amministrazione e soprattutto nella gestione della crisi economica. All'inizio del mese di giugno ha visto la luce una petizione Tamarrod anche in Tunisia. Le principali richieste sono lo scioglimento dell'Assemblea costituente (Anc), l'annullamento della bozza della nuova Costituzione e la nomina di una commissione di esperti che si occupino della Legge fondante per il Paese, tenendo conto di tutte le componenti della società. I ribelli tunisini chiedono anche elezioni anticipate. 

“Oggi l'Egitto, domani la Tunisia. Abbasso i Fratelli musulmani, rivoluzione fino alla vittoria”, gridavano centinaia di manifestanti, riuniti di fronte all'ambasciata egiziana di Tunisi nei giorni scorsi. Rachid Ghannouchi, numero uno di Ennahda, e l'ex premier Hamadi Jabali hanno preso le distanze dall'atteggiamento totalitario di Erdogan in Turchia e Morsi in Egitto, seppure dicendosi preoccupati per gli interventi dell'esercito. Gli islamisti moderati tunisini sono contestati anche dai salafiti, che spingono per l'applicazione della sharìa, a costo di incendiare il clima sociale. 

Poi ci sono i Fratelli di Libia, con il partito Giustizia e costruzione e altre sigle minori che vantano sei ministri nell'attuale governo. Braccati da Muammar Gheddafi – ma coccolati dal figlio e delfino Seif al-Islam – gli Ikhwan libici non hanno il medesimo radicamento che in Egitto, per questo guardano alla Guida suprema egiziana come loro riferimento. Alcuni elementi potrebbero dare sostegno operativo ai cugini del Cairo, ma in clandestinità, perché non godono di grandi simpatie fra la popolazione. 

Da una costola della Fratellanza egiziana proviene anche quella giordana, accusata di voler cacciare il casato hashemita da Amman, sebbene coinvolta nella vita politica da 40 anni. 

Ma i Fratelli che hanno più da perdere da un effetto domino egiziano sono quelli turchi, al potere dal 2002 con il partito Giustizia e sviluppo di Recep Tayyep Erdogan: la spinta islamizzante sembra ormai aver saturato la società turca. Sono Fratelli in esilio gli elementi di spicco dell'opposizione politica al regime siriano: ospitati da Ankara, vorrebbero imitarne la recente storia. 

E ha uguale Dna anche Hamas, nato nel 1987 dalla Fratellanza musulmana palestinese. A Gaza, Hamas è messa in discussione da frange oltranziste. Sulla sponda della Striscia, il richiamo del Cairo potrebbe trovare orecchie attente.

(Federica Zoja per Avvenire, 7 luglio 2013)

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