giovedì 11 luglio 2013

Strana coppia


In due anni è cambiato tutto, eppure sembra che non sia cambiato niente: fra gli egiziani e i loro generali è ufficiale il ritorno di fiamma. 

Un fallimento storico per la borghesia islamista, che ha aspettato la propria chance per mezzo secolo e ha bruciato in poco più di un anno il credito guadagnato nelle prigioni di Anwar Sadat e Hosni Mubarak. E un successo per l'esercito, che si conferma ancora una volta nella storia del Paese nordafricano lo scoglio cui aggrapparsi quando tutto volge al peggio. 

Solo “protezione”, come scrive l'attivista Dalia Ziadam, dirigente del Centro Ibn Khaldun per gli studi democratici, oppure nuova dittatura lo dirà la storia. Per ora alcune valutazioni, però, si possono azzardare: rimosso nel 2011 Hosni Mubarak – che è stato condannato a morte nel corso di un primo processo e ora ne affronta un secondo – alcune figure strategiche all'ombra del suo regime trentennale, come il generale Sami Enan, hanno mantenuto intatto prestigio e influenza. 

Se infatti in Yemen, allo smantellamento del clan Saleh a fine 2011 sta facendo seguito la riduzione del potere economico e politico delle Forze armate, in Egitto ciò non è avvenuto: ancora oggi si ritiene che non meno del 45% dell'economia egiziana sia controllato dall'esercito, beneficiario sotto Mubarak di terre, fabbriche, proprietà immobiliari e complessi industriali in tutto il Paese. 

I militari hanno goduto dei proventi non solo dell'industria bellica – in particolare negli anni '80, da Saddam Hussein, dal Kuwait, dalla Somalia e dal Sudan – ma anche di quella civile e non li hanno perduti. Le F.a. traggono guadagno dall'industria alimentare, tessile, manifatturiera, dall'agricoltura, dal turismo, dall'edilizia, da cementifici e acciaierie, dal comparto sanitario e da quello degli idrocarburi. Anche ora, tutto passa sotto il grande ombrello protettivo del Segreto di Stato. 

Una volta in pensione, oggi come fino a due anni fa, comandanti e generali si danno alla politica oppure si convertono al business (come il rivale di Mohammed Morsi alle presidenziali del 2012, Ahmed Shafik). Un intreccio fra affari, politica e sicurezza che ricorda da vicino il modello americano, anche se adesso Washington storce il naso nel concedere i consueti 1,3 miliardi di dollari per finanziare la stabilità dell'alleato arabo. 

A gestirli è sempre stato il ministero della Difesa e della produzione militare (circa 42.000 i dipendenti): è di almeno 250 milioni di euro annui il profitto netto derivante da attività civili. Il budget ministeriale, esclusi gli aiuti americani, è di 6 miliardi di dollari. Al decimo posto nel mondo per grandezza (tra 400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservisti sarebbero altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito (il più grande del mondo arabo), marina, aeronautica e aviazione militare, cui si aggiungono forze paramilitari ancora in essere. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di confine, che però fanno capo al ministero degli Interni. 

Dopo la Rivoluzione, alcuni giudici intrepidi hanno messo in piedi processi per corruzione per le divise più esposte, ma senza esito: l'imputato Enan, per esempio, è stato Consigliere militare della presidenza Morsi senza colpo ferire. Un anno fa, l'ennesimo scandalo: l'esercito egiziano si è 'regalato' un complesso sportivo da sogno nel deserto a Est del Cairo (stadio, piscine, albergo a cinque stelle, strada a quattro corsie per arrivarci, ecc..), realizzato a cavallo fra 2010 e 2012. 

Eppure, in un sondaggio condotto dal suddetto Centro Ibn Khaldun (fondato da Saad Eddin Ibrahim, professore di sociologia acerrimo nemico di Mubarak, negli anni '90) nel mese di marzo, l'88% degli intervistati auspicava il ritorno dei militari al potere. E di questa maggioranza, la massima parte aveva meno di 35 anni. Insomma, se anche Morsi dovesse cadere, non c'è altra alternativa se non quella armata.

(Federica Zoja per Avvenire, 4 luglio 2013)

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