In
due anni è cambiato tutto, eppure sembra che non sia cambiato
niente: fra gli egiziani e i loro generali è ufficiale il ritorno di
fiamma.
Un fallimento storico per la borghesia islamista, che ha
aspettato la propria chance per mezzo secolo e ha bruciato in poco
più di un anno il credito guadagnato nelle prigioni di Anwar Sadat e
Hosni Mubarak. E un successo per l'esercito, che si conferma ancora
una volta nella storia del Paese nordafricano lo scoglio cui
aggrapparsi quando tutto volge al peggio.
Solo “protezione”, come
scrive l'attivista Dalia Ziadam, dirigente del Centro Ibn Khaldun per
gli studi democratici, oppure nuova dittatura lo dirà la storia. Per
ora alcune valutazioni, però, si possono azzardare: rimosso nel 2011
Hosni Mubarak – che è stato condannato a morte nel corso di un
primo processo e ora ne affronta un secondo – alcune figure
strategiche all'ombra del suo regime trentennale, come il generale
Sami Enan, hanno mantenuto intatto prestigio e influenza.
Se infatti
in Yemen, allo smantellamento del clan Saleh a fine 2011 sta facendo
seguito la riduzione del potere economico e politico delle Forze
armate, in Egitto ciò non è avvenuto: ancora oggi si
ritiene che non meno del 45% dell'economia egiziana sia controllato
dall'esercito, beneficiario sotto Mubarak di terre, fabbriche,
proprietà immobiliari e complessi industriali in tutto il Paese.
I
militari hanno goduto dei proventi non solo dell'industria bellica –
in particolare negli anni '80, da Saddam Hussein, dal Kuwait, dalla
Somalia e dal Sudan – ma anche di quella civile e non li hanno
perduti. Le F.a. traggono guadagno dall'industria alimentare,
tessile, manifatturiera, dall'agricoltura, dal turismo,
dall'edilizia, da cementifici e acciaierie, dal comparto sanitario e
da quello degli idrocarburi. Anche ora, tutto passa sotto il grande
ombrello protettivo del Segreto di Stato.
Una volta in pensione, oggi
come fino a due anni fa, comandanti e generali si danno alla politica
oppure si convertono al business (come il rivale di Mohammed Morsi
alle presidenziali del 2012, Ahmed Shafik). Un intreccio fra affari,
politica e sicurezza che ricorda da vicino il modello americano,
anche se adesso Washington storce il naso nel concedere i consueti
1,3 miliardi di dollari per finanziare la stabilità dell'alleato
arabo.
A gestirli è sempre stato il ministero della Difesa e della
produzione militare (circa 42.000 i dipendenti): è di almeno 250
milioni di euro annui il profitto netto derivante da attività
civili. Il budget ministeriale, esclusi gli aiuti americani, è di 6
miliardi di dollari. Al decimo posto nel mondo per grandezza (tra
400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservisti sarebbero
altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito (il
più grande del mondo arabo), marina, aeronautica e aviazione
militare, cui si aggiungono forze paramilitari ancora in essere. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di confine, che però
fanno capo al ministero degli Interni.
Dopo la Rivoluzione, alcuni
giudici intrepidi hanno messo in piedi processi per corruzione per le
divise più esposte, ma senza esito: l'imputato Enan, per esempio, è
stato Consigliere militare della presidenza Morsi senza colpo ferire.
Un anno fa, l'ennesimo scandalo: l'esercito egiziano si è 'regalato'
un complesso sportivo da sogno nel deserto a Est del Cairo (stadio,
piscine, albergo a cinque stelle, strada a quattro corsie per
arrivarci, ecc..), realizzato a cavallo fra 2010 e 2012.
Eppure, in
un sondaggio condotto dal suddetto Centro Ibn Khaldun (fondato da
Saad Eddin Ibrahim, professore di sociologia acerrimo nemico di
Mubarak, negli anni '90) nel mese di marzo, l'88% degli intervistati
auspicava il ritorno dei militari al potere. E di questa maggioranza,
la massima parte aveva meno di 35 anni. Insomma, se anche Morsi
dovesse cadere, non c'è altra alternativa se non quella armata.
(Federica Zoja per Avvenire, 4 luglio 2013)
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