lunedì 1 ottobre 2007

Libertà di stampa sotto processo

Un giudice che parla sottovoce, la fascia rossa a fargli da scudo. E tutt’intorno ufficiali di polizia panciuti, schermati da occhiali Ray-Ban, irrequieti e arroganti, intenti a osservare i numerosi avvocati della difesa, gli attivisti delle organizzazioni umanitarie, la stampa nazionale ed estera.
Chi non sente si arrampica sui banchi, si appoggia ai vicini, tende l’orecchio e commenta ad alta voce.
Tutto è permesso, almeno in apparenza, in un gioco fra deboli e forti in cui i ruoli si scambiano all’infinito. Perché quelli in uniforme sono i più spaventati, così chiamano altri fantocci della sicurezza – gli agenti ‘segreti’ in completo marrone, gli scagnozzi in borghese, invece, in jeans e camicia giallo-beige – e ordinano loro di fare un altro giro dei presenti e segnarne ancora i nomi.
Gli stranieri sono sempre quelli, dall'inizio alla fine, ma è meglio controllare. Identità, motivazioni, tecnologia al seguito.
Un taccuino a quadretti, una macchina fotografica e un passaporto europeo fanno più paura delle armi, da queste parti.
E’ bene ricordarlo quando i lunghi corridoi del tribunale del Cairo, le piccole porte laterali e la gabbia arrugginita degli imputati chiudono lo stomaco e tolgono il respiro.
Meglio non finire sotto processo, in Egitto.

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