giovedì 24 novembre 2011

Tutti contro Bashar

Tutti contro il regime siriano. Dopo aver chiuso uno o entrambi gli occhi sulla rivolta in atto in Siria da marzo a questa parte (costata la vita ad almeno 3500 persone, secondo le Nazioni Unite, ndr), la Lega araba sembra improvvisamente colta da attivismo e intraprendenza.

Come confermato dalle informazioni in possesso del Dipartimento di Stato americano: “Quasi tutti i leader arabi dicono la stessa cosa: il regime di Assad deve finire. Il cambiamento in Siria è inevitabile”, ha detto ieri Jeffrey Feltman, segretario di Stato aggiunto per il Medio Oriente, riferendo la situazione a Damasco a una sottocommissione degli Affari Esteri del Senato americano. “Alcuni leader arabi hanno già iniziato a proporre l'asilo ad Assad per indurlo a lasciare con calma e rapidamente”, ha aggiunto Feltman, dando così il metro delle pressioni cui é sottoposto in queste ore il presidente-oftalmologo.

Meglio tardi che mai, si potrebbe commentare, ripercorrendo in sequenza il domino di dittatori nel quasi totale silenzio della principale organizzazione politica dell'area. Un appuntamento con la storia fallito rovinosamente, un'occasione di riscatto dall'influenza delle potenze ex colonizzatrici lasciata sfuggire per sempre. Ma non tutto è perduto, devono essersi detti i rappresentanti delle 22 nazioni della Lega Araba, cogliendo nella rivoluzione siriana gli elementi per tornare sotto i riflettori e, allo stesso tempo, liberarsi di un nemico scomodo.

Il dittatore Bashar Al Assad, classe 1965, ha due grossi difetti che lo rendono odioso al 'palazzo di vetro' del Cairo, indirizzato nelle sue scelte dalla diplomazia egiziano-saudita: é di fede musulmana alawita e rappresenta la testa di ponte degli ayatollah iraniani nel mondo arabo. Di che candidare il presidente siriano all'eliminazione ben più di Muammar Gheddafi, a suo tempo ostile alla Lega eppure 'tollerato'.

Nel dettaglio, gli alawiti, setta sciita fondata nel X secolo, rappresentano solo il 20% della popolazione siriana, a fronte di una maggioranza sunnita. Più o meno la stessa proporzione esistente fra sciiti e sunniti nella comunità musulmana mondiale (30% contro 70%, secondo stime). Gli Assad, padre e figlio, hanno sempre garantito la tolleranza religiosa, forse proprio per il loro passato di emarginazione: ancora oggi gli alawiti sono considerati eretici dai sunniti, mentre sono stati legittimati dagli altri sciiti solo negli anni '70. Il discorso vale anche per la comunità cristiana (pari a circa 900 mila persone), che ora trema di fronte a un futuro dai contorni incerti.

Ma Damasco é solo una pedina di uno scacchiere regionale complesso e instabile. La Siria riflette il conflitto politico-religioso in atto in Medio Oriente: Teheran, paladina della minoranza sciita, contro Riad, custode della tradizione sunnita. Favorendo la cancellazione del regime di Damasco e la nascita di una nuova leadership 'amica', l'Arabia Saudita intende riguadagnare il terreno politico perso dall'11 settembre in poi e fare cosa gradita agli Stati Uniti. Proprio perché si sta progressivamente disimpegnando dal Medio Oriente, Washington, dal canto suo, ha tutto l'interesse a lasciare dietro di sé Paesi 'vedetta' in grado di tutelarne gli interessi.

Domani, i ministri degli Esteri dei 22 si riuniranno nella sede centrale del Cairo, affacciata su quella piazza Tahrir ormai divenuta sinonimo di rivoluzione, per decidere il da farsi contro Damasco - forse sanzioni, forse congelamento di beni -, colpevole di aver violato l'accordo di tregua con gli oppositori, firmato solo una settimana fa in Qatar. In realtà, risulta evidente che, se anche Assad fermasse l'esercito e si sedesse a un tavolo con il Consiglio nazionale siriano (Cns, il fronte unito della rivolta), il destino del regime di Damasco sarebbe comunque segnato.

Contro il comune nemico siriano, la Lega Araba sembra aver trovato una parvenza di unità.

(Federica Zoja su Avvenire 11 Novembre 2011)

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