Si
è cominciato a parlare di un partito del Divano (in arabo egiziano
kanaba,
termine derivato da canapé, ndr), nell'autunno del 2011, quando
coloro che avevano fatto la rivoluzione dei 18 giorni puntarono il
dito contro gli altri.
Quelli che erano rimasti in silenzio, appunto
seduti sul divano di casa, mentre i più intrepidi si facevano
massacrare dagli uomini di Hosni Mubarak. Rubata agli attivisti, la
parola è stata utilizzata da politologi e mezzi di comunicazione per
dipingere la maggioranza dei cittadini egiziani, non necessariamente
vili o indifferenti. Semplicemente troppo occupati a sopravvivere,
fra famiglia, miseri doppi lavori e disservizi sociali, per scendere
nelle strade.
Ebbene, dopo un anno di strapotere islamista, anche
quelli di Hizb al-Kanaba, che proprio nella Fratellanza musulmana
avevano creduto per il futuro dei propri figli, hanno rotto il
silenzio e abbandonato il salotto di casa. La maggioranza
silenziosa, rimasta tale per oltre un anno mentre la nuova dirigenza
politica faceva man bassa di tutti i posti chiave
nell'amministrazione del Paese, ha evidentemente toccato il fondo. E
senza bisogno di sigle politiche, richiami religiosi né road map ha
già tolto la fiducia al presidente della Repubblica Mohammed Morsi.
Alcune riflessioni, inevitabili: né i vertici né tantomeno la base
dell'Egitto di oggi hanno digerito le regole del galateo democratico,
che impongono una serie di passaggi obbligati e assunzioni di
responsabilità. Inoltre, la petizione Tamarod
(Ribellione), semplice nel linguaggio e negli obiettivi, ha avuto il
tempismo che era mancato a tutte le iniziative precedenti, cosiddette
marce da un milione di cittadini cui partecipavano poche centinaia di
persone.
Ma soprattutto, la leadership politica islamista non ha
colto il disagio logorante in cui, nell'ultimo anno e mezzo, ha
vissuto la grande massa silenziosa dei concittadini: interruzioni di
corrente elettrica continue (un tempo frequenti solo in estate, a
causa del consumo di elettricità da parte degli impianti di
condizionamento dell'aria), code ai distributori di benzina e gas
(alcune finite nel sangue, con gli utenti infuriati gli uni con gli
altri), aumento dei prezzi dei beni di prima necessità senza
precedenti, cumuli di immondizie abbandonati per giorni, diffuso
senso di insicurezza anche in aree residenziali dei centri urbani,
infrastrutture in decadimento.
E fame, tanta fame per almeno un
quarto della popolazione, con meno di un dollaro al dì. Un altro
quarto, invece, sopravvive con poco più di un dollaro al giorno. La
Banca mondiale ha cominciato a lanciare l'allarme in marzo,
preannunciando una “catastrofe economica”: in concreto, non ci
sono soldi per importare grano (il 75% del fabbisogno interno arriva
dall'estero) e questo vuol dire che milioni di persone faranno la
coda ai forni, sotto il sole di mezza estate, inutilmente.
Senza
soldi, va da sé, l'Egitto non può importare niente di niente. Le
riserve sono crollate da 36 miliardi di dollari a 13 nel biennio. Il
presidente Morsi, tuttavia, resiste da oltre un anno al Fondo
monetario internazionale, pronto a concedere 4,8 miliardi di dollari
di prestito a certe condizioni: tanto, pare abbia detto ai
fedelissimi, “il mondo non permetterà che un grande Paese come
l'Egitto faccia fallimento”.
(Federica Zoja per Avvenire, 4 luglio 2013)
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