L'esplosione che ha sventrato un
centro commerciale nel sobborgo sciita di Beir al-Abid, a Beirut,
riposiziona bruscamente il baricentro dell'attenzione internazionale
dal Cairo al Vicino Oriente, là dove la crisi siriana sta assumendo
sempre più le caratteristiche di un buco nero che tutto risucchia.
I due focolai, in realtà, non sono slegati: nell'ultimo anno, fili invisibili hanno accorciato le distanze fra l'Egitto, gigante sunnita impolverato sul finire dell'era Mubarak, e l'Iran, burattinaio mediorientale che in Siria ha molto da perdere.
Appena eletto presidente della Repubblica egiziana, Mohammed Morsi scelse come seconda tappa della sua tournée all'estero, il 30 agosto scorso, la Repubblica islamica iraniana (la prima fermata fu invece a Pechino, il 29 agosto, ndr). Un segnale allarmante per Washington e Riad, che della spaccatura fra sunniti e sciiti hanno fatto un postulato matematico. Anzi finanziario. E anche per Israele, abituata ad addormentarsi nell'incubo del nucleare iraniano.
L'intervento di Morsi al Vertice delle nazioni non allineate, organizzato appunto a Teheran, non fu morbido nei confronti del regime di Damasco, percepito dagli ayatollah come sangue del proprio sangue, ma si trattò comunque della prima visita di un presidente egiziano in terra sciita dal 1979.
Poi, il 5 febbraio di quest'anno l'altrettanto storica visita dell'omologo Ahmadinejad al Cairo, ricevuto dal fratello musulmano Morsi. I due, a margine del summit della Cooperazione islamica, parlarono di Siria, Palestina ed equilibri regionali. “L'assetto geopolitico regionale sarebbe diverso, se Egitto e Iran avessero posizioni condivise”, disse il presidente iraniano, mentre il collega barbuto annuiva al suo fianco.
E' chiaro che quelle due mani strette davanti alle telecamere devono aver tormentato i sonni di molti. Mentre i due capi di Stato discutevano – e gli uomini d'affari mettevano le basi di futuri progetti congiunti – fuori i salafiti (musulmani sunniti conservatori) protestavano contro qualsiasi concessione fatta agli eretici sciiti.
Va da sé che, quando per Morsi, lo scorso 30 giugno, le cose hanno cominciato a volgersi al peggio, Teheran - e non Tel Aviv, né Washington, né Riad - ha invocato il rispetto del voto democratico in terra egiziana. Altrettanto logico che gli 'alleati' salafiti abbiano fatto lo sgambetto al presidente per il suo flirt orientale (ma non solo).
Qui, è ovvio, non sono in discussione le scorribande interne dei Fratelli egiziani, che poco o nulla hanno a che vedere con la cultura democratica, ma, in un'ottica allargata, il peso che avrebbe potuto giocare una leadership forte al Cairo per le sorti di Siria e Libano.
Se è vero che Teheran, dal conflitto damasceno, punta a veder riconosciuto il proprio peso politico – dando ormai per scontato che Assad è un cavallo zoppo – e se è altrettanto vero che Qatar e Arabia Saudita non hanno nessuna intenzione di accordare tale riconoscimento, un'intermediazione in grado di parlare ai due estremi del tavolo sarebbe stata salvifica.
Saltata per aria la sponda dialogante egiziana, lo scontro senza quartiere fra sunnismo integralista e sciismo rischia ora di tracimare in Libano con forza dirompente.
(Federica Zoja per Avvenire, 10 luglio 2013)
I due focolai, in realtà, non sono slegati: nell'ultimo anno, fili invisibili hanno accorciato le distanze fra l'Egitto, gigante sunnita impolverato sul finire dell'era Mubarak, e l'Iran, burattinaio mediorientale che in Siria ha molto da perdere.
Appena eletto presidente della Repubblica egiziana, Mohammed Morsi scelse come seconda tappa della sua tournée all'estero, il 30 agosto scorso, la Repubblica islamica iraniana (la prima fermata fu invece a Pechino, il 29 agosto, ndr). Un segnale allarmante per Washington e Riad, che della spaccatura fra sunniti e sciiti hanno fatto un postulato matematico. Anzi finanziario. E anche per Israele, abituata ad addormentarsi nell'incubo del nucleare iraniano.
L'intervento di Morsi al Vertice delle nazioni non allineate, organizzato appunto a Teheran, non fu morbido nei confronti del regime di Damasco, percepito dagli ayatollah come sangue del proprio sangue, ma si trattò comunque della prima visita di un presidente egiziano in terra sciita dal 1979.
Poi, il 5 febbraio di quest'anno l'altrettanto storica visita dell'omologo Ahmadinejad al Cairo, ricevuto dal fratello musulmano Morsi. I due, a margine del summit della Cooperazione islamica, parlarono di Siria, Palestina ed equilibri regionali. “L'assetto geopolitico regionale sarebbe diverso, se Egitto e Iran avessero posizioni condivise”, disse il presidente iraniano, mentre il collega barbuto annuiva al suo fianco.
E' chiaro che quelle due mani strette davanti alle telecamere devono aver tormentato i sonni di molti. Mentre i due capi di Stato discutevano – e gli uomini d'affari mettevano le basi di futuri progetti congiunti – fuori i salafiti (musulmani sunniti conservatori) protestavano contro qualsiasi concessione fatta agli eretici sciiti.
Va da sé che, quando per Morsi, lo scorso 30 giugno, le cose hanno cominciato a volgersi al peggio, Teheran - e non Tel Aviv, né Washington, né Riad - ha invocato il rispetto del voto democratico in terra egiziana. Altrettanto logico che gli 'alleati' salafiti abbiano fatto lo sgambetto al presidente per il suo flirt orientale (ma non solo).
Qui, è ovvio, non sono in discussione le scorribande interne dei Fratelli egiziani, che poco o nulla hanno a che vedere con la cultura democratica, ma, in un'ottica allargata, il peso che avrebbe potuto giocare una leadership forte al Cairo per le sorti di Siria e Libano.
Se è vero che Teheran, dal conflitto damasceno, punta a veder riconosciuto il proprio peso politico – dando ormai per scontato che Assad è un cavallo zoppo – e se è altrettanto vero che Qatar e Arabia Saudita non hanno nessuna intenzione di accordare tale riconoscimento, un'intermediazione in grado di parlare ai due estremi del tavolo sarebbe stata salvifica.
Saltata per aria la sponda dialogante egiziana, lo scontro senza quartiere fra sunnismo integralista e sciismo rischia ora di tracimare in Libano con forza dirompente.
(Federica Zoja per Avvenire, 10 luglio 2013)