Ore 18.30, domenica 22 febbraio, Il Cairo. Entriamo nella moschea universitaria di Al Azhar da un'entrata laterale, al termine della preghiera non tutti i fedeli sono usciti e noi non vogliamo disturbare. Qualcuno sta ancora meditando o si trattiene con altri compagni. Senza scarpe e in rispettoso silenzio, io con la testa velata, ci aggiriamo per i vasti locali interni. Poi una pausa sotto il porticato, una sosta di fronte a un portone giusto il tempo di leggere il cartello affisso - "Sala della preghiera per le donne" - e un boato improvviso squarcia l'aria.
In pochi secondi, gli sguardi dei presenti si rincorrono frenetici e dubbiosi. C'è chi parla di incidente automobilistico, di una bombola del gas, di un incendio. Ma i guardiani di Al Azhar si accingono a chiuderci dentro per motivi di sicurezza e urlano confusamente. Non so che cosa mi prende, ma è più forte di me. Non voglio rimanere in trappola, devo uscire, devo sapere, stringo le scarpe che ho in mano e schizzo fuori in strada scalza. Non mi giro neanche. So che il mio compagno di viaggio mi seguirà.
Imboccare il sottopassaggio e farsi largo fra la folla in controsenso è un attimo. Pochi minuti dopo la deflagrazione siamo di fronte a una scena tanto reale quanto cruda. C'è gente che piange, polizia dappertutto, ambulanze in arrivo, vigili del fuoco. I negozianti stanno chiudendo, disperati. E la parola fino ad allora innominata esce allo scoperto. Combòla. Bomba. Punto e basta, nient'altro da dire. L'illusione che quella che sento come la mia città sia indenne dall'incubo terrorismo - come se quattro anni, quelli passati dall'ultimo episodio, fossero un'eternità - si infrange come un vetro. Mi sento una stupida.
Non mi resta che fare il mio mestiere, telefonare e dare vita alla giostra. E poi parlare con la gente, ascoltare le storie, farmi intervistare dalla radio francese - i media francesi sono i più coinvolti, l'unica vittima è una giovane studentessa in gita scolastica -. Parlo e scrivo, racconto e mi carico. Solo 24 ore dopo, passata l'ubriacatura, mi rendo conto che sono viva. E che per pochi minuti, per un caso, per un naturale disinteresse verso i luoghi pù turistici, io e il mio compagno di avventura ci siamo.
Mi scrive una collega più grande ed esperta: "Chissà perchè, noi che viaggiamo in questi posti, diamo come per scontato di beneficiare, con i nostri colleghi, di una sorta di immunità. Fino a quando non scopriamo che così non è".
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