domenica 13 febbraio 2011

La vera forza della divisa è il mondo degli affari

Sarà davvero sufficiente l'uscita di scena del presidente Hosni Mubarak a far voltare pagina alla Repubblica araba d'Egitto?

La risposta non può che essere negativa. Il raìs, in realtà, è solo la punta di un iceberg mastodontico, quello di una leadership militare che lo stesso presidente ha coccolato, nutrito, fatto arricchire nel corso di tre decenni. Fra Mubarak e i suoi generali esiste un rapporto di osmosi tale, fra interessi economici e politici condivisi, per cui oggi è difficile immaginare la sopravvivenza degli uni senza l'altro.

Non sorprende che in Egitto, caduto il tabù della salute del presidente, anche dopo 18 giorni di proteste popolari non si parli apertamente degli interessi economici in divisa: le forze armate, la vera classe dirigente del Paese, sono rimaste sempre nell'ombra lasciando ad altri, i servizi segreti, il compito di sporcarsi le mani e attirarsi l'odio degli oppositori. Ancora oggi l'esercito gode della stima della popolazione, che lo considera super partes. Ma presto, c'è da scommetterci, l'opinione pubblica comincerà a sbirciare nelle tasche dei suoi vertici militari e a chiedere spiegazioni.

Si ritiene che almeno il 45% dell'economia egiziana sia controllato dall'esercito, che negli anni ha ricevuto in 'dono' terre, fabbriche, proprietà immobiliari e complessi industriali in tutto il Paese. I militari hanno goduto dei proventi non solo dell'industria bellica – con commesse da capogiro, negli anni '80, da Saddam Hussein, dal Kuwait, dalla Somalia e dal Sudan, in particolare – ma anche di quella civile.

Ecco dunque che le forze armate traggono guadagno dall'industria alimentare, tessile, manifatturiera, dall'agricoltura, dal turismo, dall'edilizia, da cementifici e acciaierie, dal comparto sanitario e da quello degli idrocarburi senza essere mai tenute a rendere noto il proprio bilancio: tutto passa sotto il grande ombrello protettivo del Segreto di Stato. Una volta in pensione dall'esercito, comandanti e generali assumono prestigiosi incarichi di governo oppure si convertono al business nelle maggiori realtà industriali, talvolta di proprietà dello Stato talvolta privatizzate.

Un intreccio fra affari, politica e sicurezza che ricorda da vicino il modello americano, di cui l'Egitto è un'emanazione nel mondo arabo: ogni anno, un fiume di dollari (1,3 miliardi) scorre da Washington verso le casse del Cairo per finanziare la stabilità dell'alleato arabo, ritenuta indispensabile per il quieto vivere di Israele. Soldi di cui i cittadini egiziani non vedono neanche l'ombra, perché finiscono direttamente al ministero della Difesa e della produzione militare (circa 42.000 i dipendenti): è di almeno 250 milioni di euro annui il profitto netto derivante da attività civili. Il budget ministeriale, esclusi gli aiuti americani, è di 6 miliardi di dollari.

Al decimo posto nel mondo per grandezza (tra 400.000 e 450.000 gli arruolati, mentre i riservisti sarebbero altrettanti), le forze armate egiziane si articolano in esercito, marina, aeronautica e aviazione militare, cui si aggiungono forze paramilitari. Infine, le Forze di sicurezza centrali e quelle di confine, che però fanno capo al ministero degli Interni.

Ora ai militari egiziani il compito, paradossale, di pilotare una svolta epocale verso una società sempre più civile e meno militarizzata che ne lederà gioco forza gli interessi e ne ridimensionerà il ruolo. In parte, il ministro della Difesa Mohammed Tantawi sembra aver già dimostrato di essere l'uomo giusto, lui che, conosciuto come il “cagnolino” di Mubarak fino a pochi giorni fa, non ha esitato, secondo indiscrezioni, a criticare il presidente con la controparte statunitense. Dimostrando di voler saltare giù dal treno prima che deragliasse.

Avvenire, 12 Febbraio 2011

Esce di scena l'ultimo Faraone

Dopo 17 giorni di resistenza a oltranza, l'ultimo faraone egiziano sembra ormai destinato a uscire di scena. L'incertezza regna nella capitale, fra indiscrezioni su una sua partenza già avvenuta e su trattative dell'ultimo minuto per convincerlo a salire su un volo per Londra, dove parte della famiglia ha già traslocato.

Ma se alla fine Hosni Mohammed Sayyed Mubarak accetterà di rimettere il proprio incarico di presidente della Repubblica araba d'Egitto, per il grande Paese nordafricano si aprirà una strada del tutto nuova, non priva di incognite per i suoi 80 milioni di cittadini e per le nazioni limitrofe.

Una fine, quella del comandante dell'aviazione militare Mubarak, nato il 4 maggio del 1928 nel villaggio di Kafr El Mesalha, nel governatorato di Menoufia, che farà discutere a lungo, per le sue modalità del tutto inattese: i più, infatti, si aspettavano che colui che è stato il monarca assoluto dell'Egitto post-Sadat lasciasse orfano il suo 'regno' all'improvviso, per gravi motivi di salute. Mubarak è affetto da anni da un mare incurabile che lo ha costretto a più riprese a recarsi in Germania o in Francia per terapie tanto intensive quanto riservate. Da ultimo, meno di un anno fa il presidente è stato operato alla cistifellea nella clinica tedesca di Heidelberg, per poi fare ritorno in patria per la convalescenza dopo due settimane: in quell'occasione, il premier Ahmed Nazif ne ha assunto i poteri, mentre l'anziano raìs si riprendeva nella residenza di Sharm El Sheikh, sul Mar Rosso.

Tuttavia la malattia, probabilmente un tumore diffuso all'apparato digerente, non gli ha impedito in questi mesi di recarsi sovente all'estero in visita ai principali alleati economico-politici, fra cui quello italiano. Per rafforzare i legami, rassicurare gli 'amici' e mettere in guardia i nemici del regime, palesemente in attesa di scricchiolii sinistri. Ma il tam tam sul peggiorare del suo quadro clinico era sempre più insistente.

Nel luglio 2010, una fonte accreditata al Cairo ha dichiarato ad Avvenire: “Ormai ha un'autonomia di venti minuti. Lo tengono in piedi durante gli incontri ufficiali a forza di punture. Poi si ritira e crolla”. Per questo, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che a scalzare il 'faraone' sarebbe stata una ondata di proteste popolari, accese dall'esempio tunisino, con la spallata finale dell'esercito a dare il colpo di grazia.

Ma forse per Mubarak il volta faccia dei vertici militari e la piega presa dagli eventi nelle ultime tre settimane non rappresentano una sorpresa. Lui stesso, a detta di storici e analisti, è stato fra i protagonisti di un frangente simile, 30 anni fa. La carriera politica di Hosni Mubarak ha preso uno slancio inarrestabile nel 1975, con la nomina a vice presidente di Anwar Sadat: militare di carriera, medaglia al valore per il ruolo svolto alla guida dell'aviazione nella guerra dello Yom Kippur con Israele (1973), da quel momento Mubarak ha messo da parte il profilo militare a favore di quello diplomatico, con la gestione diretta del dossier più scottante, quello relativo a un trattato di pace con Tel Aviv.

E se ora i detrattori di Mubarak si ostinano a dire di lui: “É sempre stato un burattino nelle mani di generali più esperti e intelligenti”, il curriculum di quei primi anni di leadership sembra smentirli. Non solo il pilota diplomatosi all'Accademia del Cairo e specializzatosi in Unione Sovietica mostrò notevoli doti di mediazione, garantendo all'Egitto decenni di pace e sviluppo, ma si assicurò anche la fiducia di Washington, della maggior parte dei governi occidentali e, dopo un breve esilio del Paese dalla Lega degli Stati Arabi, anche un ruolo di primo piano per Il Cairo.

Pochi anni dopo, Sadat è stato ucciso da un gruppo di ufficiali su cui grava il sospetto di connivenza con frange islamiste radicali (sull'episodio e sul ruolo del vice presidente Mubarak i pareri sono discordanti) e il suo numero due è uscito definitivamente dall'ombra per assumere il controllo con pugno di ferro. Le similitudini con l'ascesa di Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e vero responsabile dei dossier esteri dagli anni 2000 in poi, sono evidenti.

Senza esitazioni né cedimenti Mubarak ha tenuto le redini di un Paese cruciale per lo scacchiere mediorientale, pluri-confessionale, in via di sviluppo economico e al centro di un processo di islamizzazione. In 30 anni non ha mai abrogato le leggi d'emergenza proclamate all'indomani dell'assassinio di Sadat (6 ottobre 1981), ma se ne è servito per stroncare sul nascere qualsiasi opposizione al suo potere assoluto. Non ha mai nominato un vice presidente né un vice segretario del suo partito, il Nazionale democratico.

Ha tollerato la Fratellanza musulmana, principale movimento di opposizione, ma non ne ha mai avallato il ruolo politico in modo ufficiale. E alle opposizioni laiche ha concesso di esistere, ma non di alzare la testa: lo sa bene Ayman Nour, giovane avvocato in corsa alle presidenziali del 2005 (le prime aperte a più candidati) e per questo 'punito' con 5 anni di carcere.

Di lui tutto si potrà dire, ma non che sia stato incoerente o contraddittorio, come invece il vicino Gheddafi: alleato degli Stati Uniti sempre e comunque, Mubarak non ha condannato gli interventi militari in Afghanistan e Iraq. E nemmeno quelli israeliani in Libano (2006) e a Gaza (2008-2009). Lo sguardo sempre rivolto a Ovest. Indubbiamente anche per calcolo e guadagno personale del proprio clan.

La ferocia nel perseguire i nemici non gli è mancata, ma questo non ha inorridito gli alleati occidentali: insieme al braccio destro Suleiman, Mubarak ha elaborato la pratica delle rendition, i trasferimenti di sospetti islamisti in Paesi come l'Egitto, appunto, in cui la tortura è utilizzata da servizi e polizia.

Un solo cedimento ai sentimenti, in tanti anni di potere, gli è probabilmente stato fatale come un tallone d'Achille: la decisione di lasciare al figlio lo scettro, non dando peso al dissenso dei vertici militari.

Avvenire, 11 Febbraio 2011