mercoledì 27 ottobre 2010

Sderot, pagine che fanno paura

Per avere un libro di storia il più possibile completo, pluralista, frutto di un coro eterogeneo di voci si può e si deve lottare. La pensano così gli studenti di un istituto superiore di Sderot, centro urbano israeliano di piccole dimensioni e scarso appeal estetico, ma indubbia fama, data la sua infausta posizione geografica.

La cittadina, infatti, si trova nell’area occidentale del deserto del Negev, a un km dalla Striscia di Gaza. E per questa sua ubicazione è da anni, alternativamente, bersaglio privilegiato di missili palestinesi più o meno artigianali sparati dalla Striscia oppure porta d’accesso alla lingua di terra controllata da Hamas per le rappresaglie israeliane.

Sderot è una tappa obbligata per la stampa internazionale che desidera capire come vivono gli israeliani di frontiera, quelli che hanno pochi secondi per ripararsi dal momento in cui suona un allarme missilistico. Allo stesso tempo, la cittadina fondata negli anni ’50 costituisce un punto di osservazione “ideale” per seguire a debita distanza i raid aerei israeliani nella Striscia, come accaduto durante l’operazione Piombo fuso (dicembre 2008-gennaio 2009).

Ma d’ora in poi a Sderot si potrà associare anche un’immagine diversa: quella di una popolazione che, attraverso i suoi esponenti più giovani, vuole voltare pagina. Ecco perché.

I ragazzi dell’istituto Sha’ar Hanegev, privati di un testo di storia che presentava l’una accanto all’altra la ricostruzione della storia moderna del Medio Oriente per mano di un docente israeliano e di uno palestinese, non intendono rassegnarsi e chiedono di parlare con il dirigente del ministero dell’Educazione che ne ha disposto il ritiro.

La notizia è stata riportata il 25 ottobre dal sito del quotidiano Haaretz. Il libro incriminato, “Imparare il racconto storico di ciascuno”, è già stato utilizzato nel liceo di Sderot l’anno scorso per volontà del preside Aharon Rothstein, ma, sostengono i dirigenti a Tel Aviv, senza opportuna autorizzazione. Il divieto è stato definito dagli studenti «irritante e deludente», ora vogliono sapere di che cosa hanno paura al ministero dell’Educazione e tuonano: «Questo atteggiamento diminuisce la nostra intelligenza ed è un po’ insultante dire che crederemo a qualsiasi cosa leggiamo. Si potrebbe dire lo stesso del “Mein Kampf” di Hitler letto nelle ore di storia. Ma è ovvio, non funziona in questo modo».

Il volume reca la firma di Dan Bar-On, dell’università del Negev Ben Gurion, e di Sami Adwan, dell’università di Betlemme. Fra una versione e l’altra dei medesimi fatti storici, al centro, uno spazio bianco permette agli studenti di apporre i propri commenti, da discutere poi in classe.

Secondo la ricostruzione di Haaretz, il ministero ha “drizzato le orecchie” a seguito di un primo articolo scritto sul progetto interculturale, coordinato da un ente svedese. Dopo un colloquio con il preside, il testo è stato vietato senza appello.

Nel frattempo, al preside Rothstein è stato «proibito parlare con la stampa», ha spiegato a Lettera43 la sua segreteria, chiarendo che l’imposizione viene direttamente «dal ministero dell’Educazione».

http://www.lettera43.it/articolo/1543/pagine-che-fanno-paura.htm

giovedì 21 ottobre 2010

Pomi d'oro e hashish

Un autunno caldo così, con punte massime di 40 gradi e tempeste di sabbia impalpabile che tinge tutto di giallo, non se lo ricorda nessuno al Cairo, neanche gli anziani, intervistati dalle tv locali che seguono le sorprendenti evoluzioni del meteo nazionale. E se normalmente l’apprensione dei media supera la reale portata dei fenomeni, “gonfiandoli” a dismisura, questo non è il caso.

Perché dopo sei mesi di temperature torride (anche 50 gradi nel mese di giugno nella capitale) è naturale che la maggior parte degli egiziani metta in relazione due fenomeni: il cambiamento climatico e l’inflazione galoppante che ha colpito le verdure trasformandole in un bene di lusso.

Soprattutto i pomodori, interessati da un aumento anche del 300%, sono diventati gioielli preziosi, passati da cinque a 15 lire egiziane al kg (un euro equivale a 7,95 lire egiziane). Le melanzane volano a quota 12 lire e i fagioli a 20, tutti alimenti essenziali nella dieta di un cittadino medio, ma sempre più inarrivabili: basti sapere che lo stipendio di un impiegato statale è di poche centinaia di lire al mese. Nel frattempo, la carne rossa è un miraggio, visto che costa 70 lire al kg.

«A causa dei cambiamenti climatici, quest’anno la produzione di pomodori e altri vegetali è stata esigua» ha spiegato a Lettera43 Cristina Cocchieri, ricercatrice, specializzata in Economia dei Paesi mediterranei, da tre anni al Cairo. «L’argomento occupa le prime pagine dei giornali, ma sono in pochi a valutare il rischio di una possibile crisi alimentare, per esempio considerando anche il brusco taglio dell’export di grano dalla Russia».

Niente verdure e poco riso o grano ed ecco che la dieta di tutti i giorni non passa più per la pentola: la gente comune si nutre di formaggio, qualche uovo e tè zuccherato. Inutile scomodare le padelle se non si ha neanche una cipolla da far rosolare.

Non è la prima volta, negli ultimi anni, che l’Egitto si trova ad affrontare lo spettro dell’insufficienza alimentare e del boom dei prezzi delle derrate: nel 2008, la crisi del pane causata dalla mancanza di grano ha fatto 12 vittime, cittadini morti durante le proteste popolari o nella ressa di fronte alle botteghe dei fornai.
Un tempo l'Egitto era fra i maggiori produttori ed esportatori di granaglie, ma l’aumento demografico ha capovolto la situazione: al ritmo di 1 milione di nascite all’anno, il Paese nordafricano ha superato gli 80 milioni di abitanti e procede al trotto verso nuovi traguardi.

Gli scienziati attribuiscono il rincaro delle verdure, e il peggioramento della loro qualità, a tre fattori: temperature al di sopra della media, la presenza di una mosca bianca devastante per le colture e la comparsa di un virus che attacca in particolar modo le piante di pomodori.

Il coincidere del nuovo allarme alimentare con uno dei passaggi politici più delicati della storia egiziana sta facendo drizzare le orecchie a numerosi osservatori, non solo a quelli appassionati di dietrologia. L’emergenza alimentare nel mondo c’è: finora ne hanno pagato le conseguenze peggiori Mauritania, Mozambico, Nigeria e Zimbabwe, in cui scarseggiano riso e grano.

Ma in molti si chiedono se le autorità egiziane, pilotando i prezzi delle derrate alimentari ad hoc, stiano cercando di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dagli imminenti appuntamenti elettorali: il rinnovo dell’assemblea popolare, la Camera bassa del Parlamento egiziano, il 29 novembre, e le elezioni presidenziali in primavera. Con un possibile cambio ai vertici della repubblica dopo 30 anni di regime Mubarak.

“Ashara Al Masa” (Le dieci di sera), programma televisivo trasmesso dalla tv pubblica, ha affrontato l’argomento intervistando massaie inferocite e venditori tremebondi al mercato cairota di Bab El Louq. E la dietrologia ha trionfato: tutta colpa della corruzione che infetta la società, delle elezioni che si avvicinano e di Israele (non si sbaglia mai a citarlo, nel mondo arabo) che specula.

La crisi dei pomodori, così è stata “bollata” dai giornali, segue di alcuni mesi un’altra impasse che ha duramente colpito la società egiziana, quella dell'hashish. E non c’è ironia alcuna in tale affermazione. Illegale, ma parte della cultura popolare, l'hashish è una risorsa imprescindibile per milioni di cittadini, uomini e donne, nei grandi centri urbani come nelle aree agricole e nel deserto.

“Insieme contro la crisi dell’hashish in Egitto” è il nome del gruppo nato su Facebook nel mese di aprile, a seguito del rincaro delle agognate piantine. Scarso il successo dell'iniziativa, che ha raccolto una trentina di membri per ovvi motivi.
Rastrellato dai servizi di sicurezza, accumulato dagli spacciatori per farne lievitare il prezzo oppure rimasto fermo all’origine, là dove viene coltivato nelle montagne del Sinai per difficoltà di trasporto, l’hashish ha fatto parlare di sé per settimane, senza ipocrisie, anche in prima serata. Amr Adib, anchorman egiziano di "Al Qahira Al Youm" (Il Cairo oggi), ha dedicato una puntata della sua trasmissione alle lamentele per la scomparsa dell’hashish, lasciando invece alle autorità una campagna anti-droghe.

Intanto, mentre gli spettatori si concentrano su verdure e droghe leggere, la maggioranza smonta pezzo per pezzo le opposizioni politiche, religiose e laiche, e si prepara al passaggio dello scettro dal presidente Hosni Mubarak a un nuovo “faraone”. Una strategia già utilizzata nel 2005, prima delle urne, quando la polizia si è accanita su cittadini e turisti omosessuali, arrestati al Cairo a feste private o in locali pubblici.

Ecco perché la comunità gay del Cairo è sul chi va là: «Alla vigilia della festa organizzata da un personaggio abbastanza in vista, qualche settimana fa, si è sparsa la voce che i servizi segreti avrebbero fatto irruzione» ha raccontato a Lettera43 un invitato al prestigioso party, «Visto il periodo, l’allarme è stato preso sul serio e la festa annullata all’ultimo momento».

http://www.lettera43.it/articolo/1292/pomi-doro-e-hashish.htm

martedì 19 ottobre 2010

Farah, la prima hostess di Dubai

A una prima lettura non sembrerebbe una notizia degna di nota, anzi non sembrerebbe proprio una notizia il fatto che la ventisettenne di Dubai Farah Saeed, al termine di un corso di formazione per hostess della durata di otto settimane, sia entrata a far parte dello staff della compagnia aerea Etihad, insegna emiratense nata nel 2003.

E invece Farah, che ha effettuato il suo primo volo nella tratta fra Londra e Istanbul la seconda settimana di ottobre, ha ritrovato il proprio volto mediorientale, truccato a regolare d’arte in occasione del debutto, su svariati organi di stampa del Golfo e ora sta facendo il giro del mondo via web.
Perché prima di lei, fra tre mila hostess e steward della compagnia di bandiera non c’era mai stato un cittadino degli Emirati: eppure le nazionalità rappresentate sono un centinaio.

Scontato l’entusiasmo della pioniera, che si sente investita di un ruolo quasi diplomatico: «Ho intenzione di condividere cultura e ospitalità degli Emirati con più persone possibile e in più luoghi possibili al mondo». Un progetto sostenuto dalla famiglia: «Chi mi circonda mi ha incoraggiato a diventare la prima cittadina degli Emirati a imbarcarsi in questa carriera».

La nuova arrivata, hanno precisato i vertici di Etihad (letteralmente l’Unione, in riferimento all’Unione degli Emirati arabi, ndr), non si sentirà sola perché gli emiratensi abbondano, invece, fra piloti professionisti e allievi. Parola del direttore generale della compagnia, James Hogan, palesemente non oriundo di Dubai.

E a questo punto si riapre il dibattito sul tessuto sociale di alcuni emirati della penisola arabica, non necessariamente i sette dell’Unione, ma anche Kuwait, Qatar, Bahrein, abitati da poche centinaia di migliaia di cittadini autoctoni e milioni di emigrati per motivi di lavoro.

Qualche numero. Dei circa tre milioni e 100 mila abitanti del Kuwait, sono originari del posto appena 960 mila. In Bahrein vivono 672 mila persone, di cui solo il 64% è indigeno. In Qatar, su un milione e mezzo di abitanti, tre quarti hanno un permesso di lavoro temporaneo.

Negli Emirati arabi la sproporzione è ancora più eclatante: su otto milioni di abitanti, non più del 20% è nato in loco. Tutti gli altri sono “expat”, espatriati.
Generalizzando, nei sultanati arabi l’immigrazione è in prevalenza di etnia indiana, pakistana, cingalese, filippina, iraniana per quanto riguarda edilizia e ristorazione. Quella occidentale rappresenta una minoranza e occupa posti di responsabilità nelle sedi mediorientali di grandi network internazionali.

L’hostess Farah Saeed è il simbolo di una strategia, la cosiddetta “emiratizzazione” del personale, inaugurata da Abu Dhabi dieci anni fa e finora rivelatasi poco fruttuosa. A più riprese il governo ha tentato di stimolare l’assunzione di personale locale a colpi di decreti, ma soprattutto nel settore privato non c’è stato verso: per citare una normativa disattesa, nella primavera del 2009 ai privati operanti negli Emirati è stato imposto di assumere, nei comparti amministrativo e risorse umane, personale locale.

Un tentativo congiunto dei ministeri degli Affari esteri e del Lavoro di procedere per settori professionali che però è naufragato dopo poco, anche a causa della crisi congiunturale negli Emirati: come dire, nella seconda metà del 2009 numerose aziende internazionali con base a Dubai hanno chiuso o ridotto le proprie sedi. Meglio non innervosire quelle rimaste.

Ai cittadini emiratensi, dunque, non è rimasto altro strumento per competere con gli stranieri che studiare. Le possibilità non mancano: il 22,7% del bilancio federale 2010, circa 9,9 miliardi di dirham (1,91 miliardi di euro), è stato investito in educazione, con borse di studio per gli studenti arabi, costruzione di atenei e scuole di specializzazione ad Abu Dhabi, Dubai e Sharjah, gemellaggi con poli universitari di livello internazionale.

Solo un dettaglio da segnalare: il reclutamento di personale docente straniero per dare autorevolezza alle giovani università. Ancora.

http://www.lettera43.it/articolo-breve/1187/farah-prima-hostess-di-dubai.htm

lunedì 18 ottobre 2010

Pellegrini con stile alla Mecca

Nel tentativo di diversificare la propria economia, alimentata quasi esclusivamente dai petroldollari, l’Arabia saudita ha intenzione di potenziare l’industria del turismo religioso contendendo agli emirati vicini e alle mete internazionali i visitatori a cinque stelle.

Lo dimostrano le misure approvate dalle autorità saudite nel corso del 2010, finalizzate a migliorare la qualità dei servizi offerti ogni anno a milioni di pellegrini musulmani in visita alla Mecca e a Medina (secondo le autorità saudite, due milioni e mezzo nel 2009, ndr) e le azioni promozionali lanciate per catturare nuove fette di mercato. Un mare magnum di un miliardo e mezzo di fedeli sparsi in tutto il globo.

A gestire la complicata macchina organizzativa dei pellegrinaggi è il ministero saudita dell’Hajj, che fornisce «servizi integrati ai pellegrini della casa inviolabile di Allah», si legge sul sito web del dicastero. Al ministero fa capo il comitato centrale saudita per l’Hajj e la Omraa, le due tipologie di pellegrinaggio compiute dai fedeli musulmani, che concede ai tour operator, locali e stranieri, la licenza dopo attenta valutazione della candidatura.

Fra le condizioni che le agenzie turistiche abilitate devono rispettare vi è l’obbligo di versare alle autorità una caparra compresa fra 20 mila e 100 mila euro, che viene restituita solo se, al termine del soggiorno, nessun viaggiatore si è lamentato del trattamento. Questo dopo anni di sistemazioni precarie, proteste e incidenti, anche molto gravi, che hanno spinto Riyadh a istituire un severo sistema di multe e controlli per gli operatori turistici che non rispettano i contratti sottoscritti con i pellegrini.

Nei Paesi a maggioranza musulmana da cui partono centinaia di migliaia di fedeli ogni anno, esistono ministeri degli Affari religiosi con uffici appositi in costante coordinamento con i colleghi sauditi.

Per l’Italia, la quota annuale di “viaggiatori della fede” concessa dal regno saudita è di 3 mila persone all’anno (pari all’1% della popolazione musulmana, ndr), coordinate da una rete di agenzie munite di speciale permesso: sono nove quelle che detengono la licenza per l’Hajj, il pellegrinaggio maggiore, e due per l’Omraa, il minore.

«I pellegrini che partono dall’Italia lo fanno quasi esclusivamente per l’Hajj, che per i fedeli è una farida, cioè un obbligo», ha spiegato a Lettera43 Hossam Zahran, titolare dell’agenzia Palma Aquarius tours di Milano.

La quota di pellegrini gestita da Aquarius è di 94 unità all’anno (di cui due o tre italiani convertiti), né più né meno, stabilita in coordinamento con le altre insegne: «Lavoriamo tutti insieme su base nazionale, molti pellegrini si rivolgono a noi su segnalazione dei centri culturali islamici» ha specificato Zahran.

Per il pellegrinaggio maggiore, secondo il calendario lunare di quest’anno dal 14 al 17 novembre, gli operatori sono soliti iniziare i preparativi anche tre o quattro mesi prima: «È importante per riuscire ad assicurarsi buoni posti, negli alberghi e nelle tende vicine all’area sacra della Kabah, con prezzi giusti» ha aggiunto l’agente di viaggio.

Ecco un pacchetto-tipo: il pellegrino in partenza dall’Italia «paga meno di quanto pagherebbe dall’Egitto o da un altro Paese arabo. Il costo da qui è in media di 3 mila euro fra viaggio aereo, soggiorno in albergo, posto in tenda con aria condizionata e materasso (durante i riti all’interno delle zone sacre, ndr), pasti, bibite, spostamenti durante tutto il soggiorno», di una decina di giorni. Escluse le mance ad autisti, fattorini e portieri.

Quanto ai turisti non musulmani interessati a scoprire l’Arabia saudita, le speranze sono poche: per loro i luoghi santi dell’Islàm non sono accessibili. Poi, secondo Zahran, «c’è ben poco da vedere e non ci sono strutture adeguate per l’accoglienza». Gli ostacoli burocratici fanno passare la voglia: nel 2009 sono stati concessi solo 20 mila visti non religiosi, per motivi di lavoro o per visita a familiari in loco.

Chi l’ha detto che un pellegrino non vuole anche divertirsi. Nuovi “pacchetti” che abbinano il pellegrinaggio ai soggiorni-vacanza sono ora reclamizzati in Egitto, Emirati arabi, Malesia e Marocco.
Media e alta borghesia sono i target privilegiati dell’operazione. Grossi portafogli e scrupoli morali su dove portare la prole in vacanza? Basta licenziose capitali occidentali, largo alle località “sante”.

E il settore alberghiero fiorisce: le insegne Movenpick, Le Meridien, Intercontinental, Rotana, Ramada offrono sistemazioni a cinque stelle nel cuore della Mecca. Per hotel più economici, invece, è necessario allontanarsi anche di centinaia di km, in pieno deserto.

http://www.lettera43.it/articolo/1053/pellegrini-con-stile.htm

giovedì 14 ottobre 2010

La fiction della discordia

E alla fine, dopo settimane di polemiche e dibattiti infuocati sui principali mezzi di comunicazione egiziani, la fiction Al Gamaa, in arabo “il gruppo”, dedicata alla storia della Fratellanza musulmana e messa in onda dalla tv pubblica egiziana durante il mese di Ramadan (quest’anno ad agosto) con alti indici di gradimento, non sarà ritrasmessa fino a dopo le elezioni parlamentari, previste per la fine del mese di novembre.

Il serial potrebbe «influenzare gli elettori» ha sostenuto Osama Al Sheikh, direttore dell’Unione della radio e televisione egiziana, Ertu, che si è affrettato, come da consuetudine nella repubblica nordafricana guidata con pugno di ferro dal presidente Hosni Mubarak, a smentire qualsiasi pressione da parte dei servizi segreti, i famigerati mukhabarat.

In realtà, si è difeso Osama Al Sheikh, il contratto di Al Gamaa prevedeva tre mesi di scarto fra una messa in onda e quella successiva. Dunque, niente broadcasting prima del 29 novembre, data di inizio del processo elettorale a più tornate per il rinnovo dell’Assemblea popolare, la Camera bassa del Parlamento.

Le insicurezze del regime

La vicenda ha messo in evidenza, in un periodo delicato per la scena politica egiziana, le insicurezze insospettabili di un regime fra i più inamovibili nel mondo arabo e nel continente africano in genere.

Insospettabili perché, in quasi 30 anni di presidenza Mubarak e dominio incontrastato del Partito nazionale democratico, Ndp, nessuna minoranza è mai stata in grado di impensierire seriamente la leadership egiziana.

Nessuna tranne la Fratellanza, ufficialmente bandita dalla vita politica, ma nella pratica presente in Parlamento con 88 deputati eletti nel 2005 come indipendenti. Il cosiddetto “blocco degli 88” rappresenta circa un quinto dei deputati, complessivamente 444 eletti e 10 di nomina presidenziale.

E chissà quale risultato potrebbero raggiungere i Fratelli se la maggioranza lasciasse loro uno spiraglio maggiore.

Un movimento diffuso in modo capillare

Gli Ikhwan, i Fratelli appunto, nati in Egitto per iniziativa dell’insegnante Hassan Al Banna nel 1928 e costretti alla clandestinità dal 1954 perché considerati responsabili del tentato assassinio del presidente Gamal Abdel Nasser, costituiscono l’unico vero partito di opposizione in Egitto.

Diffuso in modo capillare sul territorio e nella società con rappresentanti nei principali sindacati e ordini professionali, nelle associazioni studentesche, nei centri culturali e ricreativi, il movimento è ormai un fenomeno che ha poco di sommerso. Per motivi di sicurezza, non esistono liste di affiliazione, ma i membri, soprattutto i più giovani, non esitano a rivelare la propria fedeltà alla guida suprema Mohammed Badie.

E Badie stesso ha dichiarato il 7 ottobre l’intenzione di partecipare al voto parlamentare puntando alla conquista del 30% dell’assemblea popolare.

Finora la leadership egiziana ha dato l’impressione di saper controllare e reprimere l’ascesa della Fratellanza su più livelli: con il congelamento delle risorse finanziarie, con la messa al bando di qualsiasi partito di ispirazione religiosa, con l’incarcerazione degli esponenti di spicco del movimento.

Tutto inutile, hanno commentato alcuni osservatori della scena politica egiziana, se è vero che una soap opera storico-romanzata costata 50 milioni di lire egiziane (un euro equivale a circa sette lire egiziane, ndr) è percepita come una pericolosa operazione di maquillage della Fratellanza.

Bene o male, l’importante è che se ne parli

Al Gamaa sembra aver scontentato un po’ tutti. Non è piaciuta alla maggioranza politica e alle opposizioni laiche perché ritenuta troppo indulgente con gli Ikhwan. In seno alla Fratellanza è stata criticata perché, al contrario, troppo filo-governativa. Ha indignato Saif Al Islàm Al Banna, figlio del fondatore del movimento, per il modo in cui è stato rappresentato il padre ed è passato alle vie legali contro gli sceneggiatori.
Per non parlare di alcuni teologi, scandalizzati per una sura del Corano riportata erroneamente.

Ma questo “polpettone” egiziano, che presto farà il giro dei network arabi, ha regalato al maggiore movimento islamista al mondo una pubblicità insperata, a spese dello Stato.

http://www.lettera43.it/articolo-breve/859/la-fiction-della-discordia.htm